Errata prescrizione di un farmaco. Omicidio colposo per l'infermiere coordinatore

Errata prescrizione di un farmaco. Omicidio colposo per l’infermiere coordinatore

La responsabilità dell’infermiere ancora una volta sotto la lente della Corte di Cassazione.

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E’ del 16 gennaio scorso la pronuncia (n. 2192) con cui i giudici di Palazzo Cavour hanno confermato la condanna per omicidio colposo di un infermiere professionale coordinatore. Il sanitario era stato riconosciuto responsabile, nel precedente grado di giudizio, della morte di un paziente avvenuta a seguito della somministrazione di un farmaco cui lo stesso era allergico.

Questo il fatto.

Nel corso del colloquio preparatorio all’intervento chirurgico avvenuto alla presenza dell’infermiere, il paziente comunicava al medico la propria allergia nei confronti degli antibiotici appartenenti alla famiglia delle penicilline; di tale allergia non veniva data segnalazione nella documentazione clinica con la conseguenza che, il giorno dell’intervento, in sala operatoria veniva somministrata amoxicillina da una collega dell’imputato (anch’essa sottoposta a giudizio ma a sua volta prosciolta sin dal primo grado) e veniva così provocato il decesso del paziente, sopraggiunto nell’arco di pochi secondi.

Il fondamento della responsabilità è stato rinvenuto dalla Suprema Corte nell’obbligo di garanzia configurabile in capo agli operatori di una struttura sanitaria, obbligo che si sostanzia nel dovere giuridico di tutela della salute e di salvaguardia dell’integrità dei pazienti affidati alle cure del personale infermieristico. Più precisamente, il collegio giudicante, recependo quanto affermato dalla Corte d’Appello in secondo grado, riconosce la sussistenza nei confronti dell’infermiere di “una posizione di garanzia in relazione all’incolumità del paziente, tenuto conto, in particolare, della qualifica professionale di vertice rivestita dall’imputato, onerato di precisi doveri sinergici di organizzazione, gestione, sovraintendimento e segnalazione“.

In altri termini, l’imputato, pur avendo acquisito sin dall’origine la notizia relativa all’allergia sofferta dal paziente, aveva omesso di procedere alle dovute segnalazioni al fine di emendare quanto erroneamente riportato nella documentazione clinica (prescrizione dell’amoxicillina), incorrendo in tal modo nella violazione degli obblighi imposti non solo dall’arte infermieristica ma anche dalla posizione apicale rivestita all’interno della struttura.

Due paiono, in estrema sintesi, gli aspetti che emergono dalla lettura della sentenza in oggetto.

Innanzitutto, nessun rilievo è stato attribuito ai fatti che, secondo la difesa, sarebbero stati idonei ad interrompere il nesso causale tra l’omissione dell’infermiere e il decesso del paziente, ossia: l’assenza di quest’ultimo, perché in turno di riposo, nei due giorni precedenti l’intervento chirurgico (giorni in cui il personale medico avrebbe dovuto provvedere alle verifiche della correttezza delle prescrizioni terapeutiche), né il fatto che la concreta prescrizione dell’amoxicillina sia avvenuta in assenza dell’infermiere stesso ma, al contrario, all’interno di un ambito – quale la sala operatoria – in cui esercitavano le proprie funzioni altri due infermieri caposala.

Insomma, il fatto che il percorso terapeutico preveda l’intervento di altri soggetti – di pari o di superiore livello – non legittima l’affidamento dell’imputato sulla competenza degli stessi e, di conseguenza, non vale ad interrompere il nesso causale tra la sua colpevole omissione e l’evento finale. E infatti, gli Ermellini – collocandosi nel solco del proprio consolidato orientamento – ribadiscono che “in tema di causalità, non può parlarsi di affidamento quando chi si affida sia in colpa per avere violato determinate norme precauzionali e ciononostante confidi che altri, che eventualmente gli succede nella stessa posizione di garanzia, elimini quella violazione o ponga rimedio a quella omissione“. Pertanto, chi è in colpa non può legittimamente fare affidamento sul fatto che gli altri agiscano diligentemente ed osservino le norme di propria competenza.

In secondo luogo, la sentenza in esame a ben vedere non fa che recepire – confermandoli – i principi della legislazione che regola la professione infermieristica, principalmente le leggi 42/99 e 251/2000, che “elevano” l’infermiere da semplice esecutore a soggetto attivo ed autonomo nello svolgimento del proprio ruolo, avendo la facoltà e, in taluni casi l’obbligo, di assumere iniziative nel quadro della competenza specifica riconosciuta. Così, del resto, la Suprema Corte nella sentenza 1878/2000: “In caso di dubbi sul dosaggio prescritto, l’infermiere si deve attivare non per sindacare l’efficacia terapeutica del farmaco prescritto, bensì per richiamarne l’attenzione e richiederne la rinnovazione in forma scritta” e, a ulteriore conforto, la stessa pronunzia in esame che ravvisa nei confronti dell’infermiere “un preciso dovere di attendere all’attività di somministrazione dei farmaci in modo non meccanicistico (ossia misurato sul piano di un elementare adempimento di compiti meramente esecutivi), occorrendo viceversa intenderne l’assolvimento secondo modalità coerenti a una forma di collaborazione con il personale medico orientata in termini critici”.

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