Punti fermi e questioni aperte sul trattamento dell’infezione da SARS-CoV-2 a quattro mesi dalla dichiarazione di pandemia
Il presente articolo è il terzo di una serie di quattro sui principali aspetti della pandemia di COVID-19:
- epidemiologia (già pubblicato l’8 aprile);
- patogenesi e clinica (già pubblicato il 16 maggio);
- terapia;
- prevenzione.
Estate 2020: il nuovo coronavirus non ferma la sua corsa
Al 19 luglio 2020 il virus SARS-CoV-2 ha determinato oltre 14 milioni di casi accertati d’infezione, superando i 600 mila morti al mondo per un case fatality rate (CFR) del 4,21%. Considerando al denominatore la quota stimata di asintomatici/paucisintomatici, si può calcolare un infection fatality rate più basso, definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come pari allo 0,6%. Queste cifre sono comunque ben più alte di quelle correlate all’influenza di stagione e spiegano il perché l’infezione da nuovo coronavirus sta ancora tenendo in scacco mezzo mondo.
La maggioranza dei nuovi casi si sta concentrando attualmente in quattro paesi: Stati Uniti, Brasile, India e Sudafrica; tuttavia, focolai epidemici sono presenti pressoché ovunque. Molto preoccupanti sono i valori di CFR e il tasso di mortalità per 100 mila abitanti di molti stati latino-americani, nonché di stati importati e popolosi quali Iran, Russia, Pakistan. Il dato più inquietante è comunque quello dei nuovi casi giornalieri a livello globale: il situation report dell’OMS numero 180, datato 18 luglio, descrive nelle 24 ore precedenti quasi 260 mila nuovi contagi (259.848), il valore più alto in un giorno dall’inizio della pandemia.
La ricerca per un vaccino è più intensa che mai; al contempo però aumentano anche gli interrogativi circa la durata e l’efficacia dell’immunità naturale, che quella acquisita (indotta appunto da vaccino) dovrebbe ricalcare. Ecco perché è cruciale non mollare la presa sulle prospettive terapeutiche: un trattamento efficace non solo ridurrebbe morbilità e mortalità apportando ovvi benefici al singolo paziente, ma andrebbe anche a incidere sulla durata dei sintomi e dello shedding virale, apportando benefici alla comunità in termini di riduzione della contagiosità. Al di là della terapia eziologica è bene inoltre fare il punto della situazione circa le evidenze relative alle strategie di supporto per le principali complicanze (per esempio, insufficienza respiratoria).
Domanda numero 1: quali sono gli agenti antivirali approvati contro la COVID-19?
Al momento, l’unico farmaco antivirale ad aver ricevuto ufficiale via libera dall’ente regolatorio statunitense (Food and Drug Administration, FDA) e da quello europeo (European Medicines Agency, EMA) è remdesivir.
Il remdesivir appartiene di diritto alla categoria dei “repurposed drugs”: i farmaci nati per uno scopo, nella fattispecie il contrasto al virus Ebola, e riproposti per un altro dopo essere stati accantonati per scarso successo nell’ambito della prima indicazione.
Contro COVID-19 l’approvazione riguarda i casi di polmonite necessitanti somministrazione di ossigeno, e dunque classificabili come gravi (“severe disease”).
Remdesivir, analogo nucleosidico della base azotata adenosina, agisce avendo quale bersaglio l’enzima RNA polimerasi RNA-dipendente. Esso è un profarmaco che nell’organismo viene convertito in una forma metabolicamente attiva, la quale viene incorporata nella molecola di RNA prodotta dall’enzima RpRd bloccando la replicazione virale. Attraverso un sofisticato meccanismo, remdesivir riesce ad aggirare l’attività di “proofreading”, ossia correzione di bozze, da parte di uno specifico enzima dei coronavirus, deputato a rimuovere le basi azotate anomale.
Il trial che ha dato luce verde all’approvazione del farmaco, dopo i primi risultati dall’uso compassionevole, è stato lo studio ACTT-1, pubblicato in forma preliminare sul New England Journal of Medicine. Lo studio ha coinvolto 1063 pazienti in 18 centri tra Nord America, Asia, Europa da febbraio e aprile, randomizzati 1:1 a ricevere 10 giorni di remdesivir o un placebo.
In sintesi, il trial ha dimostrato che il farmaco accelera il “time to recovery”: 11 giorni versus 15 giorni complessivamente. L’outcome è stato definito come miglioramento delle condizioni cliniche dei pazienti, ossia il primo giorno di raggiungimento di un punteggio 1, 2 o 3 su una scala ordinale i cui primi tre valori corrispondevano a: paziente non ospedalizzato, paziente non ospedalizzato ma con limitazioni, paziente ospedalizzato ma senza problemi medici attivi.
Al di là dei dati incoraggianti (compresa una riduzione, seppur non statisticamente significativa, della mortalità), quali sono i punti critici dello studio? Innanzitutto, l’outcome primario è stato cambiato in corso d’opera. Poi, alla pubblicazione dei risultati preliminari mancavano ancora i dati di follow-up a 29 giorni del 30% dei pazienti. Infine, molti sottogruppi erano chiaramente sottodimensionati e il beneficio maggiore si è osservato nei pazienti con polmonite necessitante ossigeno, ma non nei pazienti con polmonite grave richiedenti ventilazione meccanica, ventilazione non invasiva, cannule nasali ad alti flussi, ossigenazione extracorporea a membrana. Inoltre, il “time to recovery” nei pazienti con forme lievi-moderate era pressoché uguale (5 giorni) nei due gruppi (farmaco e placebo).
In definitiva, il remdesivir si profila come un farmaco utile, ma non come un game-changer.
Domanda numero 2: qual è il ruolo degli steroidi contro la COVID-19?
Le esperienze con i precedenti coronavirus maggiori, come quello della SARS, erano state deludenti per quanto concerne l’uso degli steroidi. Storicamente eterogenei poi gli effetti dei cortisonici sulla sindrome da distress respiratorio acuto (in inglese nota secondo l’acronimo ARDS), un quadro di importante insufficienza respiratoria innescato da vari insulti, fra cui quelli virali sono tra i principali.
Dopo diversi dati da lavori osservazionali, il primo trial a gettare luce sull’argomento è stato lo studio RECOVERY. Tale studio si basa su una piattaforma molto agile in cui i farmaci possono essere aggiunti alla o sottratti dalla randomizzazione in accordo alle evidenze del momento. Con un approccio molto semplice, 2104 pazienti con COVID-19 di varia gravità sono stati assegnati a ricevere desametasone (6 mg una volta al giorno fino a un massimo di 10 giorni) e 4321 con similari caratteristiche al braccio “usual care”. Complessivamente, la riduzione della mortalità nel gruppo sottoposto a intervento, corretta per l’età, è risultata statisticamente significativa (22,9% versus 25,7% a 28 giorni). Tuttavia, a un’analisi più granulare, è emerso come il beneficio si confermasse nei pazienti richiedenti ventilazione meccanica o comunque ossigeno-terapia, ribaltandosi tuttavia l’effetto (aumento di mortalità nel gruppo d’intervento) nei pazienti senza necessità di supplementazione di ossigeno al momento della randomizzazione.
Nuovi studi saranno dunque fondamentali per chiarire il ruolo dei cortisonici nei pazienti con malattia più lieve; nei casi più gravi il beneficio sembra essere evidente, seppur non eclatante.
Domanda numero 3: l’idrossiclorochina ha un qualche ruolo nei confronti della COVID-19?
L’idrossiclorochina, farmaco antimalarico molto utilizzato in ambito reumatologico per i suoi effetti immunomodulanti, è stata al centro di una saga dai contorni più letterari che scientifici. Sulla base di modelli sperimentali e di risultati aneddotici nelle prime settimane della pandemia, è stata eletta a farmaco salvavita, anche per il suo costo irrisorio. Perfino importanti capi di stato ne hanno fatto pubblicamente menzione. In Italia, l’idrossiclorochina è diventata il farmaco più prescritto in ambito territoriale, risultando al contempo un’opzione anche in ambito nosocomiale secondo le prime linee guida.
La pubblicazione, sul finire di maggio, di un corposo studio osservazionale su Lancet, includente dati da più continenti, teso a dimostrare un aumento della mortalità nei pazienti COVID-19 trattati con idrossiclorochina (o clorochina, il suo analogo), ha indotto l’OMS a sospendere il reclutamento di soggetti nell’ambito di studi randomizzati su tale farmaco. Vi è stato però un clamoroso colpo di scena: dopo la pubblicazione, molti commentatori hanno sollevato notevoli perplessità sullo studio, notando incongruenze sfuggite ai referee. Sul banco degli imputati è finita la Surgisphere, società di analisi sanitaria, incapace di fornire risposte convincenti sulle anomalie di un database internazionale apparentemente dettagliatissimo ma pieno di errori, anche marchiani: ad esempio, un numero di morti in Australia superiore a quello dichiarato dalle autorità statali alla data dello studio. In pochi giorni lo studio è stato ritirato, così come un altro pubblicato sul NEJM e basato anch’esso su dati della misteriosa e bislacca Surgisphere, il cui “science editor” era per esempio un autore di fantascienza.
L’idrossiclorochina è stata così riabilitata dall’OMS agli inizi di giugno, ma pressoché in contemporanea è arrivata la doccia gelata: dalla sezione dedicata del trial RECOVERY (al momento solo in forma di pre-print) non è emerso alcun beneficio legato all’idrossiclorochina; al contrario, sembra dannosa. Infatti, i dati di 1561 pazienti sottoposti al farmaco, confrontati con 3155 dopo randomizzazione, mostrano una mortalità a 28 giorni lievemente superiore nel primo gruppo (26,8% versus 25,0%, significatività statistica non raggiunta). Inoltre, i pazienti sottoposti a idrossiclorochina hanno mostrato un rischio maggiore di degenza prolungata in ospedale e progressione verso l’outcome composito di ventilazione meccanica e morte. I risultati sono risultati coerenti nei vari sottogruppi.
Anche un trial di recente pubblicazione su Annals of Internal Medicine e focalizzato su pazienti non ospedalizzati con malattia lieve (491 randomizzati) non ha mostrato alcun beneficio rispetto al placebo nel braccio d’intervento (5 giorni di idrossiclorochina) sull’entità dei sintomi.
Tutto dunque sembra convergere sull’inutilità o addirittura dannosità dell’idrossiclorochina, al di là del pasticcio della Surgisphere.
Domanda numero 4: su quali altri farmaci vi sono solide prove d’efficacia?
Un altro “repurposed drug” all’inizio apparentemente promettente è stata la combinazione di lopinavir-ritonavir, due inibitori della proteasi utilizzati per anni contro l’HIV. Sempre dalla piattaforma RECOVERY sono arrivati dati da un robusto trial clinico (non ancora pubblicato) impostato come quello sull’idrossiclorochina. La randomizzazione ha coinvolto 1596 pazienti nel gruppo d’intervento e 3376 in quello di controllo: la mortalità a 28 giorni è stata del 22,1% versus 21,3%; l’effetto non si è modificato nei vari sottogruppi.
La piattaforma RECOVERY adesso si sta focalizzando su azitromicina, sul plasma di soggetti convalescenti e su tocilizumab: al momento vi sono prove d’efficacia contrastanti, provenienti da studi osservazionali o piccoli trial non dirimenti.
Domanda numero 5: perché è difficile avere “certezze” sulla terapia anti-COVID-19?
Lanciando una ricerca sul sito ClinicalTrials.gov alla data dell’8 giugno, un gruppo di ricercatori dell’Università del Texas (MD Anderson Cancer Center, Houston) ha trovato 674 studi di fase 3 riguardanti COVID-19 (rimuovendo quelli già conclusi o sospesi), di cui 512 randomizzati (includendo anche studi di prevenzione).
Questo dato astronomico implica una serie di problemi. La frammentazione di trial sovrapponibili, innescata spesso dalla competizione scientifica, rende più difficile il reclutamento di pazienti e genera comunque tanti piccoli studi. In tal modo, anziché avere un solo trial di potenza statistica rilevante in virtù di un campione numeroso, si hanno numerosi trial sottodimensionati dove alto è il rischio di un risultato falsamente positivo per semplice effetto del caso.
Bisognerebbe dunque unire le forze per studi randomizzati di alta qualità.
Un ruolo cruciale è svolto inoltre dai comitati editoriali delle principali riviste scientifiche. La fretta nel pubblicare ha prodotto errori clamorosi di valutazione. Il processo di peer-review si è inceppato non di rado: al di là degli studi ritirati della Surgisphere, non pochi sono stati i casi in cui ricercatori da tutto il mondo hanno rilevato i difetti dilavori pubblicati, specialmente osservazionali, che mostravano inquietanti crepe: immortal time bias, mancata considerazione di rischi competitivi, inopportuna trasformazione di variabili continue in binarie e così via.
Occorre dunque maggiore attenzione anche da parte delle riviste al fine di spronare i gruppi di ricerca a produrre dati solidi.
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