Il punto della situazione epidemiologica sull’infezione da SARS-COV-2 a un mese dalla dichiarazione di pandemia
Il presente articolo è il primo di una serie di quattro sui principali aspetti della pandemia di COVID-19: epidemiologia; patogenesi e clinica; terapia; prevenzione.
N.B. I dati presentati sono aggiornati al 4 aprile 2020.
11 Marzo 2020: cade il tabù sulla parola “pandemia”
L’11 marzo 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che l’infezione da nuovo coronavirus SARS-CoV-2, responsabile della patologia definita come COVID-19, era da considerarsi una pandemia, seppur ancora controllabile.

Dopo circa un mese dalla dichiarazione dell’OMS è stato sfondato il tetto del milione di casi accertati nel mondo (1.140.327 al 4 aprile secondo il database della John Hopkins University – JHU), investendo in pieno i paesi occidentali: gli Stati Uniti guidano la classifica dei contagi con 278.568 casi. Nessun continente è comunque risparmiato: il virus ormai colpisce 181 tra stati e regioni/territori autonomi.
Domanda numero 1: qual è la reale letalità del virus?
Al 4 aprile 2020, la JHU registrava 60.887 decessi al mondo. Utilizzando questa cifra al numeratore, e al denominatore il numero di casi accertati prima descritto, viene fuori un case fatality ratio (CFR) pari a 5,3%. Tuttavia, si osserva una grande variabilità da paese a paese, come si evince dal forest plot prodotto dal Centre for Evidence-Based Medicine dell’Università di Oxford (aggiornato al 3 aprile): dal 21% circa della Guyana allo 0,3% dell’Islanda, con un’eterogeneità del 100%.
Proprio alla luce di tale eterogeneità, che riflette enormi differenze nello screening e nel reporting dei dati tra i vari paesi, piuttosto che una stima aggregata viene fornito un intervallo di previsione (indice di dispersione che consente di valutare come la stima varia nelle popolazioni di interesse): da 0,63% a 10,52%.
Tale ampiezza è indicativa di come non ci sia omogeneità nella definizione dei casi di COVID-19: in molti paesi, in virtù di campagne di screening più aggressive, vi è la diagnosi di un numero elevato di asintomatici/paucisintomatici, la cui prognosi è decisamente migliore. Ecco perché si dovrebbe parlare più correttamente di una letalità apparente, quella relativa ai soli casi sintomatici (CFR), e di una letalità plausibile, quella in cui il denominatore include tutti gli infetti, anche senza sintomi (infection fatality rate, IFR).
Secondo una stima pubblicata su Lancet Infectious Disease (Verity et al.), in Cina il CFR è 1,38% (intervallo di credibilità tra 1,23 e 1,53%), l’IFR è 0,66% (intervallo di credibilità tra 0,38 e 1,33%). Seguendo un ragionamento analogo, ricercatori dell’Imperial College londinese hanno stimato un IFR nel Regno Unito pari a 0,9% (intervallo di credibilità tra 0,4 e 1,4%), superiore a quello cinese in ragione di una piramide di popolazione più spostata verso le fasce anziane e, con il medesimo procedimento, ricercatori dell’Italian Institute for International Political Studies (ISPI) hanno calcolato un IFR per l’Italia pari a 1,14% (intervallo di credibilità tra 0,51 e 1,78%). Questi valori non sono simili a quelli registrati sulla nave da crociera Diamond Princess, che ha rappresentato un vero e proprio caso di studio per la peculiarità della popolazione “chiusa”: 11 decessi su 712 casi, per un CFR pari a 1,5%. Da notare che al 20 febbraio, quando erano segnalati 619 casi, oltre la metà (318) erano asintomatici al momento della diagnosi.
Domanda numero 2: perché l’Italia è il paese con il più alto numero di morti da COVID-19?

Al 4 aprile, l’Italia registra 15.362 decessi su 124.362 casi, per un CFR pari a 12,4%. Il dato assoluto dei morti è il più alto in assoluto, sebbene in prospettiva è verosimile un sorpasso a breve da parte di paesi più popolosi quali gli Stati Uniti. Di rilievo è che il CFR risulta praticamente l’unico in doppia cifra tra i paesi occidentali (a parte San Marino, in cui 32 decessi su 271 casi configurano un CFR di 12,7%) e uno dei più alti al mondo. Tuttavia, questo dato è tutt’altro che omogeneo sul territorio nazionale, e influenzato in gran parte dalla regione Lombardia, in cui il CFR è del 17,6% (8.656 su 49.118). In tante altre regioni il CFR è di gran lunga inferiore: 3.4% in Umbria (41/1.210), 4.2% in Basilicata (11/264), che sono all’altro capo della classifica.
Varie spiegazioni sono state avanzate. Le più solide sono due. In primis, la sovra-rappresentazione delle fasce più avanzate in termini d’età (l’Italia è dopo il Giappone il paese più “vecchio” al mondo), quelle più vulnerabili al nuovo coronavirus. Poi, le differenti strategie di screening e testing da regione a regione, che hanno prodotto un notevole ascertainment bias, ossia una sistematica distorsione nella definizione dei casi.
La ricerca prima menzionata dell’ISPI ha mostrato una forte relazione lineare tra letalità apparente e proporzione di test positivi su tamponi effettuati da ogni singola regione (coefficiente di correlazione di Pearson, R, pari a 0.85). In altre parole, il CFR aumenta con l’incrementare delle percentuali di positività allo screening: in Lombardia questa è pari al 34,6%, in Basilicata invece è pari a 9.5%; in Veneto, la seconda regione per numero di tamponi e il cui CFR è uguale al 5,6%, la proporzione di tamponi positivi è pari all’8,1%.
Ovviamente, tale proporzione è più alta quando si sottopone a screening una popolazione già selezionata, come quella ospedalizzata o che comunque necessita di cure mediche perché sintomatica. Dunque, è evidente che tale popolazione è mediamente più grave del più ampio gruppo di persone pauci- o a-sintomatiche che vengono sottoposte a tampone e identificate solo in presenza di più estese campagne di screening. Identificando un più alto numero di casi lievi e aumentando il denominatore su cui si basa il calcolo, automaticamente la letalità si abbassa avvicinandosi al valore di letalità plausibile (IFR). In Lombardia evidentemente vi è ancora un notevole sommerso di casi non diagnosticati.
In termini assoluti comunque il numero di decessi italiani in generale e lombardi in particolare è alto. Inoltre, le statistiche ufficiali in molte zone del Nord Italia mostrano un eccesso di mortalità da quando è iniziata l’epidemia rispetto al medesimo periodo del 2019: +88% a Brescia, per esempio, secondo il Sistema di sorveglianza mortalità giornaliera (Sismg) del Ministero della Salute; +294% (da 101 a 398 decessi) a Bergamo città confrontando le prime tre settimane di marzo del 2020 rispetto a quelle del 2019 secondo l’Istat. Dunque, è verosimile che molti decessi da COVID-19 non siano stati riconosciuti come tali per mancata effettuazione del tampone rino-faringeo. Al netto del problema della marcata sottostima del reale numero di infetti, nelle aree più duramente colpite, come le zone di Bergamo, Brescia e Cremona, l’elevato CFR si spiega anche con il fortissimo stress a cui è stato ed è tuttora sottoposto il sistema sanitario in tali aree, laddove gli stessi operatori hanno denunciato la mancanza di adeguata preparedness e l’eccessivo focus su un modello di cura che mette al centro il paziente e non la comunità: tale modello si è rivelato non idoneo a fronteggiare l’emergenza epidemica.
Domanda numero 3: quanti casi di infezione da SARS-COV-2 sono realmente presenti in Italia?
La differenza tra CFR e IFR è una delle chiavi per capire la reale entità delle infezioni in un paese. In Italia, secondo il rapporto dell’ISPI, il rapporto tra i due parametri è circa 10: questo è un coefficiente che si può applicare ai casi ufficiali per stimare quelli reali. Insomma, il dato fornito dalla Protezione Civile ogni giorno rappresenterebbe solo la punta di un iceberg dieci volte più grande.
Addirittura, l’Imperial College di Londra, nel suo rapporto numero 13 sulla pandemia pubblicato il 30 marzo (non sottoposto a peer-review), stimava al 28 marzo un numero di infetti in Italia pari a 5,9 milioni: una cifra enorme, seppur nell’ambito di un intervallo di credibilità molto ampio (3,2-25 milioni). Il modello implica un tasso di attacco del 9,8%, che è molto alto, ma è la metà di quello osservato sulla nave Diamond Princess (19,2%).
Il cuore del problema nella definizione della totalità del numero di casi, di cui una buona fetta è rappresentata da asintomatici, sta nelle differenti modalità di screening: solo spiegando la strategia perseguita (la Germania per esempio fa circa 50.000 test al giorno) si può capire se i dati ufficiali sono realmente utili o meno. In Italia quel che è certo è la forte sottostima dei casi, che potranno emergere solo da studi epidemiologici.
Domanda numero 4: quali sono i fattori di rischio per esito infausto da COVID-19?
Nel rapporto esteso del 2 aprile sull’epidemia da COVID-19 in Italia, l’Istituto Superiore di Sanità realizza una fotografia da cui emergono informazioni molto utili. La letalità ha un chiaro incremento con l’avanzare dell’età e risulta più elevata negli uomini rispetto alle donne. La letalità è pressoché zero sotto i 20 anni, inferiore all’1% tra i 20 e i 50 anni, per salire all’8% nella fascia 61-69 anni e fino al 30,9% in quella 80-89 anni. In un campione di 355 pazienti italiani deceduti riportato sulla prestigiosa rivista JAMA, solo 3 non avevano patologie pregresse, mentre in media erano presente circa 3 comorbidità (2.7) a persona, di tipo cardiovascolare, metabolico oppure oncologico.
Appare così chiaro che i tre elementi più condizionati la prognosi sono l’anzianità, il sesso maschile e uno stato di salute compromesso da varie patologie di base.
Domanda numero 5: il nuovo coronavirus ha trasmissione aerea nel senso di “airborne”?
Come nel caso dell’influenza, SARS-CoV-2 si trasmette mediante piccole goccioline, chiamate “droplet”, emesse per esempio con tosse e starnuti, entro brevi distanze, generalmente un metro. In alternativa la trasmissione avviene in seguito al contatto con oggetti o superfici contaminate dove è presente virus ancora trasmissibile. Al di là della questione molto dibattuta circa la resistenza del virus su differenti tipi di superfici, un interrogativo importante concerne la possibilità di una trasmissione mediante i cosiddetti droplet nuclei, nuclei di goccioline più piccole (diametro inferiore ai 5 micrometri) risultanti dall’essiccazione dei droplet, capaci di resistere più a lungo nell’aria e di viaggiare a distanze più lunghe. Questo tipo di trasmissione coinvolge virus come quello del morbillo, tra i più contagiosi in natura. Al momento l’Organizzazione Mondiale della Sanità ritiene che, per quanto concerne il nuovo coronavirus, ciò possa avvenire solo in specifiche circostanze (per esempio, procedure implicanti la generazione di aerosol, come l’intubazione). Pertanto, si conserva l’indicazione a precauzioni per trasmissione da droplet e da contatto.
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