La pandemia da SARS-CoV-2 sta rappresentando da ormai 18 mesi uno stress test di rilevanza capitale per i sistemi socio-sanitari di tutto il mondo. Un aspetto meno appariscente agli occhi dell’opinione pubblica, che tuttavia ne può percepire le conseguenze sotto forme di controversie tra esperti sui media, è il vero e proprio shock che la COVID-19 ha causato in ambito scientifico, rischiando di travolgere l’impalcatura pluridecennale su cui è edificato l’attuale modo di intendere la pratica clinica.
A breve sarà il trentennale dell’introduzione del concetto di evidence-based medicine (EBM), che all’epoca (1992) rappresentò una vera e propria rivoluzione, un radicale cambio di paradigma nel modo di insegnare e praticare la medicina, allontanandosi da un passato fatto di tradizione, aneddotica, ragionamenti teorici a partire dalle scienze di base, per abbracciare un futuro in cui combinare la cosiddetta “prova di efficacia” (evidence), desunta da studi sperimentali quali i trial (preferibilmente) e da studi osservazionali, con l’esperienza clinica nonché con le preferenze e i bisogni dei singoli pazienti [1].
Come ha scritto l’esperta di metodologia della ricerca Trisha Greenhalgh, l’EBM sopravviverà alla COVID-19? [2].
La pandemia difatti ha creato una fortissima tensione tra la necessità di offrire una risposta rapida, dal punto di vista terapeutico, al numero crescente di persone che si ammalavano in tutto al mondo e l’altrettanto inderogabile obbligo scientifico e morale di prescrivere e somministrare interventi efficaci e non dannosi, sostenuti da un solido razionale [2]. Tale tensione si è rivelata ancora più acuta nel caso di interventi di sanità pubblica, come lockdown e utilizzo di mascherine: nel pieno di una pandemia incalzante, il costo in termini vite umane di una totale mancanza di azione risulta inaccettabile; d’altra parte, è indubbiamente difficile prendere iniziative di grande portata completamente disancorate da un qualsivoglia dato scientificamente valido [2].
La pandemia da nuovo coronavirus ha comunque esposto i limiti del tradizionale approccio EBM, specialmente per quanto concerne le politiche di public health, laddove occorre considerare che si va ad agire su sistemi complessi (l’insieme di un’intera società), in cui molteplici fattori interagiscono in modi dinamici, non lineari e poco prevedibili: la classica domanda “qual è la stima dell’effetto associata a un determinato intervento?” andrebbe dunque sostituita con un quesito tipo “l’intervento, insieme con altri numerosi fattori, contribuisce all’esito desiderato in un determinato scenario?”, proprio per sottolineare la necessità di combinare dati e risultati da fonti ed esperimenti di diverso tipo.
D’altronde, già a fine 2019, proprio poco prima dello scoppio della pandemia, un gruppo internazionale di ricercatori proponeva la complementarità della tradizionale “evidence-based practice pathway”, in cui studi come i randomized controlled trials (RCTs) tentano di offrire “definitive evidence” circa un dato intervento, con la “practice-based evidence pathway”, in cui non è la ricerca a guidare le politiche di salute pubblica ma il contrario, tramite una loro valutazione continua “on the field” per stabilire i correttivi periodici del caso [3].
La logica dell’EBM, nel cui contesto gli scienziati perseguono gli obiettivi di certezza, prevedibilità e causalità lineare, rimane comunque valida per rispondere a quesiti inerenti alla salute del singolo sottoposto a specifici trattamenti [2]. Ovviamente, ciò non valeva per i medici cinesi alle prese con i primi sfortunati pazienti affetti da COVID-19. Lì si percorrevano sentieri totalmente inesplorati, e assolutamente giustificato era il ricorso a trattamenti sulla base di sparute casistiche, plausibilità biologica, studi in vitro. Quando SARS-CoV-2 è entrato prepotentemente nei paesi occidentali, Italia in primis, da fine febbraio/inizio marzo 2020, vi era ancora in gioco una gran pletora di potenziali trattamenti, in gran maggioranza da somministrare off-label. Retrospettivamente, molti pazienti hanno ricevuto terapie manifestamente inefficaci. D’altronde, la prima importante meta-analisi sul tema dei farmaci anti-COVID-19 è stata pubblicata il 30 luglio 2020 su BMJ, risultando piuttosto inconclusiva, pur riscontrando un “probable important benefit” nei pazienti con malattia grave associato all’utilizzo degli inibitori dell’interleuchina-6 e dei corticosteroidi [4], quest’ultimo dato confermato solo il 3 settembre 2020, quando è comparsa on-line su JAMA la prima sintesi delle evidenze di alta qualità a favore dell’utilizzo dei corticosteroidi nei pazienti critici quale intervento capace di ridurre la mortalità [5].
Insomma, durante la prima ondata della pandemia si è navigato a lungo a vista, cercando un difficile equilibrio tra la scarsità delle evidenze disponibili e l’ampiezza della platea di pazienti bisognevoli di cure [6]. A marzo 2020 la Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (SIMIT), con la sua sezione lombarda, aveva già prodotto linee guida basate sulle limitate esperienze disponibili, aggiornate poi l’ultima volta nel novembre 2020 [7], ma ancora ad aprile dello scorso anno l’Infectious Diseases Society of America (IDSA) asseriva la presenza di un grave “knowledge gap” per cui non c’era reale evidenza a supportare alcun trattamento contro SARS-CoV-2 [8]. Risultava dunque drammatica la distanza tra i tempi standard di una classica sperimentazione condotta secondo i canoni dei “tempi di pace” e la velocità siderale a cui correva la pandemia.
Non appena si è iniziata l’organizzazione di RCT, è emerso il problema della sovrabbondanza di trials simili: tale frammentazione non solo poneva il rischio di un aumentata possibilità di risultati falsamente positivi per il solo effetto del caso (errore di tipo 1), ma anche quello di una non necessaria competizione per reclutare i partecipanti, finendo per compromettere il raggiungimento di un adeguato sample size [9].
Un’altra questione è stata poi il profluvio di pubblicazioni, spesso con peer-review inadeguata o solo in formato di pre-print [10]. A lungo si è decisamente preferita la quantità sulla qualità e proprio il numero soverchiante di paper ha travolto spesso ogni argine di controllo, con la scorciatoia della pubblicazione in repository open access che, nata come idea positiva per favorire la rapida disseminazione di conoscenze, è stata non di rado utilizzata in modo non appropriato. Infine, non ha giovato la polarizzazione attorno ad alcuni argomenti, che hanno travalicato i confini della ricerca scientifica per entrare nell’agone politico: eclatante è l’esempio dell’idrossiclorochina [11].
In questo contesto non è stato dunque facile stilare documenti d’indirizzo basati su solide prove d’efficacia che affrontassero a 360 gradi la gestione terapeutica della COVID-19 e che avessero il rigore del tradizionale approccio EBM. Società come l’IDSA o come il National Institute of Health (NIH) negli Stati Uniti hanno iniziato a produrre documenti “living”, con aggiornamenti periodici sfalsati nelle varie sezioni, a seconda della presenza di novità circa specifici argomenti.
In Italia vale ricordare, anche dal punto di vista medico-legale, la valenza dell’adesione a linee guida prodotte da Società scientifiche accreditate quale fattore esimente da responsabilità per gli operatori sanitari per i casi di imperizia (non di imprudenza e negligenza) secondo la legge Gelli-Bianco [12]. La già citata SIMIT ha elaborato un position paper incentrato sui pazienti severi, comparso on-line nel gennaio 2021, che tuttavia non rappresentava una vera linea guida risultando il frutto di una revisione narrativa dei dati di letteratura [13]. Lo stesso, in termini metodologici, aveva compiuto in precedenza (fine marzo 2020) la Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) sui pazienti nel setting intensivistico [14]. Il Ministero della Salute d’altro canto si è focalizzato sulle cure domiciliari, che pure hanno rappresentato una vexata quaestio coinvolgente centinaia di migliaia di italiani [15]. Tuttavia, una legione di operatori sanitari nei vari nosocomi italiani per oltre un anno non ha avuto una linea guida costruita secondo i criteri classici dell’EBM, con particolar riferimento alla metodologia GRADE (Grading of Recommendations, Assessment, Development and Evaluation), ossia lo strumento di riferimento per la valutazione della affidabilità delle prove d’efficacia in ambito scientifico e per la formulazione di raccomandazioni cliniche basate sulle evidenze [16]. Il GRADE consente la valutazione della qualità delle prove e della forza delle raccomandazioni mediante un approccio condiviso e trasparente, permettendo altresì l’integrazione della valutazione della qualità metodologica delle prove scientifiche con altri aspetti quali: fattibilità e trasferibilità in altri contesti dell’intervento proposto; benefici, rischi attesi e loro rilevanza; implicazioni di varia natura (organizzativa, sociale ed economica) [16].
A colmare questa lacuna si profilano le linee guida sviluppate in modo congiunto dalla Società Italiana di Terapia Antinfettiva (SITA) e dalla Società Italiana di Pneumologia (SIP), sulla gestione complessiva del paziente adulto affetto da COVID-19, escludendo il peculiare setting della terapia intensiva, appena pubblicate on-line sulla rivista Infectious Diseases and Therapy [17].
Il panel multidisciplinare è stato composto in massima parte, comprensibilmente, di specialisti infettivologi e pneumologi, appartenenti dunque alle due branche più esposte nella degenza ordinaria sul fronte COVID-19, e si è giovato anche della presenza di figure che hanno ampliato l’expertise verso le direzioni della farmacologia clinica, della biostatistica, e della terapia intensiva (in quest’ultimo caso proprio per segnare bene il “confine” tra aree a differente intensità di cura) [17].
A differenza di consensus e position paper estremamente settorializzati su argomenti molto delimitati, le linee guida SITA-SIP hanno sviluppato risposte a dieci quesiti per offrire il più ampio ventaglio di soluzioni ai clinici: 1) criteri di ospedalizzazione; 2) farmacoterapia nel paziente non ospedalizzato; 3) ruolo degli anticoagulanti; 4) utilizzo degli steroidi; 5) ruolo degli antivirali; 6) utilizzo degli antibiotici; 7) ruolo degli immunomodulanti non-steroidei; 8) uso del plasma iperimmune; 9) terapia dell’insufficienza respiratoria acuta ipossiemica (non mediante ventilazione meccanica); 10) criteri di dimissione (dal quesito 3 in poi ovviamente il riferimento è solo ai pazienti ospedalizzati) [17].
Per ogni punto è stata condotta una rigorosa ricerca bibliografica costruita a partire da una strategia PICO (P = population, I = intervention, C = comparison, O = outcomes). Una prima ricerca è stata effettuata fino al novembre 2020, con un iniziale aggiornamento al gennaio 2021 e uno successivo al 30 aprile: dopo gennaio 2021 soltanto RCTs sono stati presi in considerazione. Un update generale delle linee guida è previsto per fine 2021. Purtroppo, non per tutti i quesiti è stato possibile utilizzare il sistema GRADE a causa della limitatezza delle evidenze raccolte: in questi casi si sono generate delle “best practice recommendations” sulla scorta dell’opinione degli esperti.
In estrema sintesi, i principali messaggi delle linee guida SITA-SIP sono: l’utilità degli anticorpi monoclonali per i pazienti a domicilio ma con acclarati fattori di rischio per progressione di malattia; raccomandazioni favorevoli all’utilizzo degli anticoagulanti a dosaggio profilattico e degli steroidi nei pazienti ospedalizzati richiedenti ossigeno-terapia, seppure con qualità dell’evidenza bassa; raccomandazioni favorevoli all’uso, in specifiche situazioni, dell’antivirale remdesivir (con o senza l’inibitore della Janus chinasi baracitinib) e dell’inbitore dell’interleuchina-6 tocilizumab (anche in questo caso con qualità dell’evidenza bassa o molto bassa) [17].
Le linee guida SITA-SIP rappresentano così la prima linea guida italiana globale sul paziente COVID-19 sviluppata con metodo GRADE. Proprio in virtù delle valutazioni che tale sistema permette, risulta chiaro come ancora fragili siano le fondamenta su cui è stata edificata l’attuale pratica clinica inerente all’infezione da SARS-CoV-2.
Ovviamente non ha aiutato il fatto di trovarsi di fronte a un virus nuovo, i cui due parenti più stretti (SARS-CoV-1 e MERS-CoV) non hanno avuto probabilmente le attenzioni scientifiche necessarie per affrontare tempestivamente un terzo coronavirus potenzialmente pandemico.
Il carattere d’urgenza connaturato nella pandemia ha mostrato i limiti della medicina basata sulle evidenze: ad ogni modo, non sono tanto i suoi princìpi a essere messi in discussione, quanto i processi che generano le evidenze stesse [18]. Energie preziose sono state sprecate in trial piccoli e non significativi, nonché in revisioni sistematiche ripetitive, di bassa qualità e rapidamente invecchiate [18].
Un ripensamento dei meccanismi di produzione delle evidenze risulta necessario, con le possibilità di applicarlo anche in ambito extra-pandemico: rapida organizzazione di sperimentazioni multicentriche internazionali, possibilmente con disegni flessibili e adattativi; sfruttamento del machine learning e di vari sistemi di automazione per accelerare la realizzazione di revisioni sistematiche; rivalutazione della “real-world evidence” proveniente da studi osservazionali.
Solo in questo modo si potranno generare prove d’efficacia solide in tempi ragionevoli, rendendo più semplice il lavoro dei gruppi di ricerca tesi a finalizzare raccomandazioni e linee guida.
Bibliografia
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