Fin da maggio 2020, ben prima dell’introduzione di terapie che avessero un’utilità clinica e soprattutto ben prima dell’avvento dei vaccini, si è cercato di predire l’evoluzione della pandemia da SARS-CoV-2 [1]. Un elemento è stato sovente ignorato nei vari modelli: l’impatto del Long-Covid nella popolazione generale e sui sistemi sanitari. Ma cos’è il Long-Covid?
Occorre fare un passo indietro. Conseguenze a lungo dell’infezione da coronavirus maggiori erano note da anni: uno studio canadese pubblicato 2011 descriveva in una coorte di sopravvissuti alla prima SARS (a Toronto vi era stato il primo outbreak nel mondo occidentale), seguiti fino a 36 mesi dopo l’infezione, la presenza di manifestazioni quali fatica cronica, dolore, debolezza, depressione e alterazioni del sonno [2]. Una revisione sistematica effettuata nelle fasi iniziali della pandemia in corso riscontrava rilievi simili anche in coloro che erano sopravvissuti alla MERS, preconizzando la necessità di contemplare al più presto programmi di riabilitazione cardio-polmonare e psicologica per i pazienti affetti da COVID-19, e non solo per quelli colpiti da sindrome post-terapia intensiva (PICS, post-intensive care syndrome) [3].
La PICS è un’entità ben nota che affligge una quota non irrilevante di coloro i quali sopravvivono a un ricovero in terapia intensiva, innescato da qualsivoglia ragione, specialmente quando si determinano condizioni quali durata degenza di almeno una settimana, necessità di ventilazione invasiva, sepsi [4]. Tuttavia, con Long-Covid si intende un quadro che può interessare l’intero spettro di persone affette da COVID-19, da quelle con malattia molto lieve a quelle con malattia grave [5]. Risulta chiaro che il Long-Covid non è dunque specificamente legato al ricorso a cure di elevata intensità né allo sviluppo di una malattia di entità tale da determinare apparentemente menomazioni (per esempio, fibrosi polmonare post-polmonite interstiziale) che facilmente spiegherebbero la persistenza di una serie di disturbi e lo scadimento della qualità della vita.
D’altro canto, sono molti gli esempi desumibili dalla letteratura scientifica di virosi associate a sequele di varia natura: cardiovascolari, metaboliche, neuropsichiatriche [6, 7]. La sindrome da affaticamento cronico, che si sovrappone per certi aspetti al Long-Covid, pur rimanendo un’entità elusiva dal punto di vista eziopatogenetico è stata storicamente inquadrata come conseguenza di un’infezione, generalmente virale come la mononucleosi [8].
Dunque, il Long-Covid non giunge per nulla inaspettato. Risulta verosimilmente innescato da uno stato di infiammazione perdurante, con danni in vari organi e tessuti [5]. La causa prima è lungi dall’essere identificata: ci sono varie teorie, non mutuamente esclusive, inerenti alla possibile persistenza virale in appositi reservoir o “santuari”, al ruolo di residui virali, a fenomeni autoimmuni [9].
Il primo grande scoglio, tuttora non superato, per una gestione ottimale del Long-Covid è la sua esatta definizione. L’espressione è nata in un contesto assolutamente informale, attribuita in primis al Professor Paul Garner, infettivologo presso la Scuola di Medicina Tropicale a Liverpool e metodologo Cochrane, che raccontò la sua esperienza di segni e sintomi persistenti su un blog del British Medical Journal nella primavera 2020; dopodiché il tam tam sui social fece divenire “virale”, letteralmente e non metaforicamente, il neologismo [5].
Un primo tentativo di definizione è stato quello di “sindrome post-COVID-19 acuto”, data da sintomi continui e/o ritardati o complicanze a lungo termine oltre le quattro settimane dall’esordio della malattia [10].
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità si dovrebbe parlare più propriamente di sindrome “post-COVID-19”, con sintomatologia presente tre mesi dopo l’infezione primaria, perdurante per almeno due mesi e non avente spiegazioni alternative [10]. I disturbi possono essere de novo o perduranti dopo l’infezione iniziale, fluttuanti nell’entità e/o recidivanti, usualmente rappresentati da astenia, dispnea, disfunzione cognitiva [11].
Un’altra definizione emersa nel frattempo ha visto l’introduzione dell’acronimo PASC: “post-acute sequelae of SARS-CoV-2 infection”, sottintendendo una sintomatologia oltre le quattro settimane dall’infezione primaria [12].
Man mano che si sono accumulati dati e si è allungato il follow-up dei pazienti, si è capito che occorreva una stratificazione più fine: una revisione sistematica di autori statunitensi raggruppava le evidenze disponibili suddividendo il quadro PASC in short-term (sequele a un mese), intermediate-term (sequele tra i due e i cinque mesi) e long-term (sequele a sei o più mesi) [13].
L’unico documento di riferimento italiano è quello prodotto dall’Istituto Superiore di Sanità nel luglio 2021, ove si ricalca la definizione operativa delle linee guida britanniche NICE (National Institute for Health and Care Excellence), che divide il Long-Covid in due entità:
- malattia COVID-19 sintomatica persistente (segni e sintomi legati a COVID-19 di durata compresa tra le quattro e le dodici settimane dall’evento acuto);
- sindrome post-COVID-19 (manifestazioni sviluppate durante o dopo un’infezione compatibile con COVID-19, presenti per più di dodici settimane dopo l’evento iniziale e non spiegabili con diagnosi alternative) [14].
Si ribadisce che i disturbi possono essere di differente entità e intensità e che possono essere di vario tipo: generali (per esempio, astenia), oppure organo-specifici (manifestazioni cardiovascolari, polmonari, neurologiche, psicologiche/psichiatriche, gastrointestinali, dermatologiche, otorinolaringoiatriche, ematologiche, renali, endocrinologiche) [14].
Ovviamente solo l’utilizzo di una terminologia condivisa e universale può gettare le basi per la programmazione di opportuni servizi assistenziali, consentendo di definire un set di dati clinici necessari al monitoraggio e alla ricerca. Al momento purtroppo un approccio condiviso su scala nazionale e globale sembra ancora mancare, a detrimento delle necessità assistenziali e di ricerca.
In conclusione, sono ancora molte le domande in sospeso concernenti il Long-Covid.
Innanzitutto, gli specifici fattori di rischio, in base a cui soggetti che hanno avuto un’infezione paucisintomatica possono sperimentare sequele più rilevanti di soggetti che hanno avuto una polmonite franca. Per esempio, uno studio recente su Cell ha dimostrato una correlazione tra lo sviluppo di PASC e i seguenti fattori al momento della diagnosi di COVID-19: la presenza di diabete mellito di tipo 2, la positività per alcuni auto-anticorpi, il rilievo di replica virale attiva nel sangue non solo di SARS-CoV-2 ma anche di EBV (il virus della mononucleosi, che rimane pressoché a vita latente nell’organismo) [15].
Ciò conduce ad altre domande, come quelle relative all’impatto delle varianti sullo sviluppo del Long-Covid ma anche degli attuali trattamenti anti-SARS-CoV-2, come monoclonali e antivirali. Non solo: la vaccinazione ha un effetto protettivo? E se sì, dopo quante dosi e con quali tipi di vaccino?
Vi è inoltre la necessità di una diagnostica differenziale incisiva: in una grande coorte francese di oltre 35 mila persone si è evinto che una sintomatologia tipo “post-COVID-19” a circa un anno dalla prima ondata era più fortemente associata, dal punto di vista statistico, al credere di aver contratto l’infezione da SARS-CoV-2 che all’averla avuta veramente [16].
In ogni caso, una volta stabilita la diagnosi di Long-Covid, quali sono gli approcci riabilitativo-terapeutici più efficaci?
Per i sistemi sanitari si profila un carico lavorativo non da poco: superato lo stress test dei picchi delle varie ondate, anche abbracciando lo scenario migliore di un’”endemizzazione” benigna del nuovo coronavirus, le strutture di cura ambulatoriale e ospedaliera rischiano di essere travolte da un numero elevatissimo di pazienti con una sintomatologia finanche invalidante che al momento non ha una terapia riconosciuta.
Bibliografia
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