Questo articolo fa parte di un ciclo di contributi che intendono approfondire il COVID-19 nel contesto chirurgico
Pata Francesco1,2, Gallo Gaetano3, Gordini Luca4, Scardino Andrea5 (first co-authors), Di Saverio Salomone6
1Ospedale Nicola Giannettasio, Corigliano-Rossano (CS)
2Università degli Studi La Sapienza, Roma
3Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro, Catanzaro
4Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, Roma
5Università degli Studi dell’Insubria, Varese
6Professore Aggregato di Chirurgia Generale, Università degli Studi dell’Insubria, Varese
Direttore f.f. Chirurgia I, Ospedale di Circolo Fondazione Macchi, Varese
L’avvento della pandemia da SARS-CoV-2 ha stravolto la gestione dei pazienti affetti da patologie chirurgiche.
Uno degli argomenti più dibattuti riguarda l’adozione della chirurgia laparoscopica e la sua relazione con la diffusione del virus SARS-CoV-2 [1]. Tante sono le questioni ancora aperte considerato il costante afflusso di dati e le scarse evidenze scientifiche a riguardo.
In passato, l’isolamento di virus come HPV, HIV [2] e HBV [3] nei fumi derivanti da procedure laparoscopiche ha richiesto inevitabilmente l’adozione di una serie di misure preventive. Alcuni di questi aspetti riguardanti la capacità di diffusione in corso di procedure mininvasive devono essere ulteriormente approfonditi.
Inoltre i rischi correlati alla diffusione virale non riguardano solo la presenza di particelle aerosolizzate nei fumi laparoscopici: SARS-CoV-2 è stato isolato su saliva, espettorato, sangue, bile, feci, cellule del tratto respiratorio e gastrointestinale [4]. Non è perciò possibile annullare il rischio di contaminazione virale del personale di sala operatoria durante l’intervento chirurgico, sia esso per via aperta, laparoscopica o robotica [5]. A queste considerazioni si somma l’inevitabile dilatazione dei tempi operatori di preparazione della sala e del personale, soprattutto per le procedure mininvasive, aumentando il rischio di esposizione.
Origina da queste premesse l’Intercollegiate Surgical Guidance del Regno Unito [6], che riporta alcuni provvedimenti volti a ridurre l’impiego della chirurgia laparoscopica, da considerare solamente in casi selezionati, a favore della chirurgia open.
Nel medesimo periodo SAGES (Society of American Gastrointestinal and Endoscopic Surgeons) delinea le raccomandazioni fondamentali nell’utilizzo delle tecniche mininvasive [5], partendo dal presupposto che le evidenze relative alla diffusione del virus durante interventi laparoscopici rispetto all’approccio in open sono molto scarse.
In questo documento si pone pertanto l’accento sui benefici comprovati del trattamento mininvasivo in termini di ridotta durata dell’ospedalizzazione e di minor tasso di complicanze [5], fattori inversamente proporzionali al rischio di contagio [4].
Inoltre dal punto di vista molecolare SARS-CoV-2 è costituito da unità virali del diametro tra 0,06 e 0,14 micron [7], mentre le particelle di Flügge responsabili della trasmissione per via aerea presentano un calibro di 5-10 micron [8].
Attualmente in una sala operatoria adibita a procedure laparoscopiche sono presenti sistemi di filtrazione e ultrafiltrazione dei fumi in grado di rimuovere particolati di dimensioni pari a 0,1 micron [7]. Se poi si considerano i respiratori ad aria purificata, i dispositivi di evacuazione dello pneumoperitoneo e di filtrazione dei singoli trocars, DPI adeguati e formazione del personale di sala, si può affermare che la filtrazione di particelle aerosolizzate risulta più difficile durante la chirurgia a cielo aperto [5].
Se da un lato quindi non è indicato un abbandono indiscriminato delle tecniche mininvasive, dall’altro la pandemia da COVID-19 ha inevitabilmente modificato in maniera tangibile l’approccio al paziente chirurgico.
La necessità di evitare sovraffollamenti in Pronto Soccorso e nei reparti di degenza, uno snellimento del carico di lavoro dei laboratori di processazione dei tamponi per SARS-CoV-2 e infine il crescente bisogno di risorse economiche e umane rappresentano alcune delle motivazioni che hanno determinato modifiche sostanziali dell’iter diagnostico-terapeutico.
Uno studio condotto su larga scala da EAES (European Association for Endoscopic Surgery) riporta che dall’inizio della pandemia più dell’80% dei chirurghi intervistati ha dovuto procrastinare tutti i casi non urgenti, sospendere completamente la chirurgia elettiva e il 30% di essi riadattarsi a ruoli di necessità all’interno della struttura ospedaliera [9].
Pertanto si rende necessario specificare alcuni degli ambiti imprescindibili dall’indicazione chirurgica e di conseguenza dall’utilizzo, quando indicato, di tecniche mininvasive.
Nella maggior parte dell’Europa e del Nord America, la linea condivisa è stata quella di preservare sale operatorie adibite alla chirurgia d’urgenza, del trauma e dell’emergenza non differibile [10], mentre in ambito oncologico sono stati pubblicati diversi lavori scientifici che delineano criteri di priorità [11] a fronte della riorganizzazione delle risorse locali [12]. Argomento molto discusso quest’ultimo per le ripercussioni in termini di sopravvivenza che alcune di queste scelte obbligate avranno in futuro [13].
Nell’ambito della chirurgia d’urgenza, l’approccio mininvasivo ha dimostrato in diversi casi una superiorità rispetto alla chirurgia open, in termini di outcomes e rapporto costo-beneficio [14]. Ora con l’avvento della pandemia i tempi chirurgici subiscono ritardi che pongono alcune domande sull’utilizzo della laparoscopia a favore di un trattamento conservativo o chirurgico a cielo aperto. La visione comune è quella di trattare conservativamente condizioni addominali subacute o di moderata entità (ad esempio colecistiti acute non complicate, diverticoliti Hinchey 1a, appendiciti acute non perforate) con terapie antibiotiche orali, indicazioni dietetiche specifiche, follow up telefonico o per via remota [14].
L’appendicite acuta perforata richiede un intervento in regime d’urgenza [15] e nei casi di pazienti COVID-positivi o sospetti COVID-positivi viene preferito l’approccio open secondo McBurney o secondo Lanz, che conferiscono un rapido accesso in fossa iliaca destra. Sono procedure che non richiedono necessariamente l’utilizzo di energia diatermica con rischio di liberazione di fumi e che si avvalgono di tecniche manuali di isolamento e sezione del moncone appendicolare. Occorre però specificare che i tempi chirurgici di appendicectomia laparoscopica con un’adeguata expertise sono solitamente di circa 30-45 minuti [10]. Nonostante sia da considerare che i tempi per pazienti COVID-positivi e sospetti COVID-positivi si prolungano per via di un’adeguata preparazione della sala e degli operatori, rimane ancora dibattuta la necessità di una conversione ad appendicectomia open in questa tipologia di pazienti.
Le colecistiti acute non trovano in maniera unanime indicazione alla chirurgia in epoca COVID, vista la possibilità di un trattamento conservativo orale o mediante posizionamento di colecistostomia. Trovano indicazione ad approccio mininvasivo colecisti gangrenose o perforate [10], se e con adeguata esperienza dell’operatore e preparazione della sala, evitando dilazioni dei tempi operatori. In alternativa è possibile un approccio open per via sottocostale destra.
Domande analoghe riguardano la gestione di pazienti COVID-positivi o sospetti COVID-positivi con perforazione da ulcera peptica (PUP). L’approccio per via mediana laparotomica con incisione xifo-ombelicale permette la raffia dell’ulcera e la sutura del patch omentale senza significativi rischi di aerosolizzazione o esposizioni prolungate da parte degli operatori. Anche in questo caso l’approccio mininvasivo richiede tempi chirurgici di circa 60-80 minuti in mani esperte e gli outcomes riportati da una recente meta-analisi tra queste due metodiche (laparoscopica vs open) sono sovrapponibili [16]. Perciò anche in questo caso giocano un ruolo fondamentale la preparazione del personale, l’adeguata protezione degli operatori e un’adeguata filtrazione dei fumi, lasciando ancora una volta aperto il dibattito.
Anche le occlusioni del piccolo intestino senza segni di perforazione o strangolamento, a fronte dell’emergenza attuale, possono essere gestite in un primo momento in maniera conservativa, mediante procinetici o gastrografin [17] e terapia infusionale di supporto. Quando l’intervento chirurgico si rende necessario viene attuato con accesso sovra-sotto ombelicale e mediante tecniche prive di liberazione di energia diatermica e “low-cost” (adesiolisi mediante lama fredda e/o per via smussa, eventuale resezione intestinale con anastomosi manuale).
Per quanto riguarda la chirurgia colorettale si rende necessario intervenire sempre nell’ambito dell’urgenza (perforazione, sanguinamento, occlusione). Trattamenti conservativi (come angiografia +/- angioembolizzazione) devono essere valutati se il paziente con sanguinamento risulta stabile e dove sia possibile evitare manovre endoscopiche come resezioni della mucosa o procedure endoluminali.
Le procedure endoscopiche infatti richiedono un’insufflazione aggiuntiva di CO2 o aria ambiente e dovrebbero essere evitate fino a quando non avremo una migliore conoscenza della capacità di diffusione del virus in questi setting [5]. Da preferire, in caso di instabilità del paziente, l’approccio laparotomico.
In caso di perforazione da diverticolite è opportuno valutare, sulla base della clinica e delle immagini radiologiche, la presenza o meno di microperforazione tamponata, osservare la risposta alla terapia antibiotica e vagliare accuratamente la possibilità di posizionamento di un drenaggio percutaneo della raccolta addominale. Ancora una volta l’approccio viene semplificato come preferibile per via laparotomica, quando necessario. È consigliabile evitare tecniche di “addome aperto”, mentre viene caldeggiata la chiusura per strati e, nel caso della sigmoidectomia, intervento secondo Hartmann con confezionamento di stomia [11].
Ad ogni modo diversi lavori scientifici dimostrano che la chirurgia mininvasiva può essere cautamente considerata anche nell’ambito della chirurgia colorettale [11] alla luce di un’accurata analisi dei vantaggi e degli svantaggi della laparoscopia fino a qui considerati. L’approccio multidisciplinare con personale formato comprendente anestesisti, infermieri e assistenti di sala contribuisce ancora una volta a ridurre il rischio di esposizione a SARS-CoV-2, quando l’adeguata strumentazione e i sistemi di filtrazione rispondono alla necessità del momento per una prosecuzione dell’attività chirurgica in sicurezza.
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