Per la rubrica “Medici in fuga” Alessandro Gallo intervista il dottor Alessandro Deni, bolognese microbiologo clinico trentacinquenne, che ha deciso di accettare un’offerta di lavoro in Irlanda.
AG: Può condividere il suo percorso di specializzazione in Microbiologia clinica in Italia? Quali sono state le sfide e le opportunità incontrate lungo il percorso?
AD: La specializzazione di Microbiologia Clinica è molto di nicchia, come tutte le specializzazioni di laboratorio. Ho svolto il mio percorso a Bologna, dove è presente un’ottima scuola che fornisce una formazione decisamente buona. Gli specializzandi medici sono pochi, prima del COVID c’era solo un posto l’anno, al momento sono cinque ma alcuni vanno deserti; tuttavia proprio per questi numeri esigui la formazione è di qualità elevata e gli specializzandi sono ben seguiti a tutti i livelli. L’unica opportunità che è mancata è quella di un periodo all’estero: purtroppo la disciplina della Microbiologia Clinica è molto variegata e poco uniforme in Europa e nel mondo, e non sempre è in mano ai medici, per cui non è facile stabilire contatti e programmi di scambio per specializzandi con altri atenei e ospedali.
AG: Quali sono state le principali esperienze professionali che ha acquisito durante la sua specializzazione in Microbiologia clinica in Italia? Ciò ha influenzato la sua decisione di trasferirsi all’estero?
AD: La Microbiologia in buona parte d’Italia è ancora legata ad un paradigma incentrato sul laboratorio: il microbiologo è incaricato di supervisionare e implementare l’iter diagnostico delle malattie infettive, al quale prende anche attivamente parte. Non sempre però si occupa anche in maniera significativa dell’interpretazione di questi risultati, che spesso viene lasciata al clinico. A Bologna da tempo si cerca di far evolvere questo paradigma, avvicinando il microbiologo alla clinica, fornendo interpretazioni appropriate dei risultati di laboratorio, implementando la stewardship microbiologica di concerto con gli infettivologi.
Io mi sono formato in quest’ultimo contesto, e quando ho terminato la specializzazione e mi sono trasferito fuori Bologna per lavorare come dirigente mi sono accorto che avevo vissuto una situazione che probabilmente era più eccezione che regola.
In questa situazione si è inserita l’offerta dei “cacciatori di teste” irlandesi, e la realizzazione che in Irlanda il lavoro del microbiologo è decisamente più clinico, si fa molta stewardship, si incontrano i clinici in reparto invece che avere solo contatti telefonici, si prendono attivamente decisioni in merito alla terapia antimicrobica. Un carico di responsabilità decisamente più importante della mera emissione del referto, ma sicuramente un lavoro molto più gratificante e molto più “clinico”.
AG: Ha avuto esperienze di lavoro presso istituti di ricerca o centri ospedalieri in Italia nel campo della Microbiologia clinica? Può condividere alcuni dei suoi progetti o risultati più significativi?
AD: Al di là di Bologna, non ho avuto occasione di lavorare in centri dove si facesse ricerca. A Bologna, assieme alla professoressa Stefania Varani, mi sono occupato molto di parassitologia, in particolare di leishmaniosi viscerale, una patologia poco nota ma potenzialmente fatale che nella zona pedemontana emiliana è endemica.
AG: Quali sono le principali differenze che ha riscontrato tra le opportunità di ricerca e sviluppo professionale in Italia e quelle offerte all’estero, in particolare in Irlanda?
AD: Cambia completamente il tipo di lavoro, si sposta dal laboratorio al reparto con decisioni attive nell’impostazione della terapia; si tratta di un lavoro molto più clinico e quindi spesso molto più variegato e stimolante. La mera attività di laboratorio purtroppo, spesso nei centri più piccoli, si trasforma presto in lavoro da scrivania che diventa routine e inaridisce la mente.
AG: Ha avuto difficoltà nel trovare opportunità di carriera stabili e soddisfacenti in Italia dopo aver completato la sua specializzazione? In che modo questa situazione ha influenzato la sua decisione di cercare opportunità all’estero?
AD: La mia specializzazione ha praticamente zero opportunità di lavorare in libera professione, oppure nel privato (dove vengono assunti generalmente biologi, meno sindacalizzati e con un ordine professionale più debole). Per questo siamo molto dipendenti dai concorsi pubblici, e nel nostro caso sono pochi e disseminati in tutta Italia. Per lavorare come dirigente medico ho dovuto fare le valigie e lasciare Bologna, facendo il lavoratore in trasferta e rivedendo mia moglie solo nei fine settimana in un periodo in cui i nostri genitori avevano già messo su famiglia. In questo periodo si parla molto di calo demografico e del fatto che la nostra generazione non fa figli; ma due persone che vivono a 200km di distanza, di cui una con un part time poco retribuito, con un mutuo e un affitto sulle spalle più le spese di benzina e autostrada per vederci almeno nel weekend, come possono pensare di mettere su una famiglia stabile?
Mi sono fatto i conti in tasca, e mettevo da parte meno di quello che avrei guadagnato rimanendo nel bolognese a fare la guardia medica, lavoro poco gratificante e senza possibilità di carriera ma che ti consente di lavorare due giorni a settimana portando a casa un gruzzolo discreto. E aggiungo, non è un caso che moltissimi colleghi specializzati nelle discipline più disparate abbandonino la carriera ospedaliera per passare alla medicina di famiglia: permette loro di avvicinarsi a casa propria e offre il vantaggio di potersi gestire i propri orari.
Purtroppo la situazione sarebbe stata questa per diverso tempo, fino al prossimo concorso nei dintorni di Bologna, che potenzialmente sarà fra 4-5 anni. A quel punto la differenza pratica fra restare “parcheggiati” a Udine, Pescara, Torino per i prossimi 4-5 anni e stare parcheggiati a Limerick diventa poca: ed ecco che la qualità del lavoro prospettata e lo stipendio elevato diventano l’ultimo incentivo che finalmente ti spinge a sfidare la burocrazia e a saltare nel vuoto. Poi non dico che non esista chi lo fa solo per i soldi, ma nel mio caso sono stati solo l’incentivo finale.
AG: Come valuta il supporto e l’orientamento forniti ai giovani medici specializzati in Italia, in termini di ricerca di opportunità lavorative e sviluppo di una carriera nel campo della Microbiologia clinica?
AD: Se si intende post-specializzazione, scarso. Qualche contratto a tempo determinato si può trovare, inserendosi in graduatorie di nicchia e venendo ripescati “su raccomandazione”, ma le opportunità sono poche e di certo non per volontà o colpa dei primari o del personale di laboratorio. Io stesso sarei stato tenuto a Bologna, se i miei superiori avessero avuto i mezzi per farlo.
Questo però è comune a moltissime specializzazioni, soprattutto quelle che non hanno la possibilità di mettersi in libera professione, aprire un ambulatorio e iniziare subito ad avere pazienti. La mia è una specializzazione prettamente ospedaliera, siamo completamente dipendenti dai contratti pubblici. E i contratti pubblici seguono i tempi e i modi della burocrazia e dell’amministrazione, entità senza volto che non sempre lavorano tenendo in considerazione merito, professionalità, necessità familiari etc.
AG: Il trasferimento dall’Italia all’Irlanda comporta sicuramente alcune sfide dal punto di vista amministrativo, gestionale, ambientale e della sistemazione abitativa. Intanto il riconoscimento del titolo di studio potrebbe richiedere una registrazione presso l’ente regolatorio medico irlandese. Inoltre, i regolamenti fiscali e previdenziali in Irlanda sono diversi. I medici impiegati in Irlanda hanno accesso a tipologie di sistemi che non hanno una corrispondenza diretta in Italia, tra cui:
- Public Service Pension Scheme (Scheme for Non-Consultant Hospital Doctors): questo programma riguarda i medici non consulenti impiegati nel settore pubblico. È un regime pensionistico a contribuzione definita, in cui i partecipanti versano un’entità specifica di contributi per la propria pensione. Il beneficio pensionistico è basato sulle retribuzioni finali e sulla durata del servizio.
- Public Service Pension Scheme (Consultant Doctors): questo schema si applica ai medici consulenti impiegati nel settore pubblico. Anche questo è un regime pensionistico a contribuzione definita che si basa sulle retribuzioni finali e sulla durata del servizio.
- Medisec Superannuation Scheme: questo schema pensionistico è specifico per i medici che lavorano in strutture sanitarie private o indipendenti. È un regime pensionistico a contribuzione definita, in cui i partecipanti versano contributi regolari e il beneficio pensionistico dipende dal valore accumulato del fondo pensione.
- Personal Retirement Savings Account (PRSA): i medici possono anche scegliere di aderire a un PRSA, che è un regime pensionistico personale e portatile. In questo caso, i medici versano contributi su base volontaria in un conto pensionistico individuale, e il beneficio pensionistico dipende dall’accumulo dei contributi e dagli investimenti effettuati.
La ricostruzione di carriera ai fini pensionistici nel quadro di un eventuale rientro in Italia potrebbe risultare complessa. Forse è troppo presto per pensarci?
AD: Ancora non ci ho pensato, ma dovrei rientrare nel programma per consultant, che si basa su una contribuzione basata sul reddito non dissimilmente dalla nostra INPS, anche se non ho ancora avuto tempo per approfondire i dettagli. Negli stati dell’UE e in alcuni altri come gli Stati Uniti esiste una convenzione per cui il medico espatriato che vuole mantenere l’iscrizione all’Ordine italiano può interrompere il pagamento della quota A dell’ENPAM, ammesso che sia sottoposto ad uno schema pensionistico adeguato nel paese dove lavora. Per paesi al di fuori di questa convenzione, come ad esempio i paesi del Golfo Persico dove lavorano alcuni colleghi italiani, si è tenuti a continuare a versare la quota A, a meno di disiscriversi completamente dall’Ordine.
Sulla sistemazione abitativa, i disagi che mi trovo ad affrontare non sono dissimili a quelli nostrani, vale a dire un mercato degli affitti incredibilmente dinamico in cui è quasi necessario essere già in loco per trovare una sistemazione prima che sparisca dal mercato. Gli affitti in Irlanda sono cari ma tutto sommato in linea con gli stipendi; per contro, comprare casa costerebbe proporzionalmente molto meno che in Italia, ma porterebbe con sè i vincoli di una casa di proprietà in un luogo dove non è detto che rimarrò a vita. Per cui si fa come si fa anche in Italia: le prime due settimane in albergo e intanto ci si adopera. Mi secca però dire che da questo punto di vista ho dovuto fare tutto da solo, i miei recruiter sono stati davvero poco utili e non è competenza dell’amministrazione ospedaliera, che anzi è stata molto disponibile a venirmi incontro per quanto riguarda le tempistiche di inizio del lavoro.
Una precisazione: consultant non è “consulente”, ma è il grado equivalente all’italiano “dirigente medico”. Si tratta del medico specializzato ospedaliero, sotto il quale lavorano i “registrar”, gli specializzandi locali, che però rimangono tali almeno sei anni e percepiscono quanto un dirigente medico in Italia.
Il mio principale problema per ora è stata l’iscrizione all’Irish Medical Council. I medici laureati in Unione Europea sono agevolati nel senso che il titolo viene riconosciuto quasi automaticamente, e per i medici specializzati non è nemmeno richiesto un attestato di lingua. Però la registrazione all’IMC, equivalente locale del nostro Ordine, è un passo obbligatorio e per nulla semplice: bisogna inviare copie autenticate dei diplomi di laurea e specializzazione, un attestato di conformità rilasciato dal Ministero della Salute, il certificato di onorabilità professionale meglio noto come Good Standing, il tutto unitamente a traduzioni certificate eseguite da persona regolarmente iscritta all’Albo dei Traduttori; poi i tempi di attesa possono arrivare anche a due o tre mesi. Fra costo dei documenti e tariffa da pagare all’IMC è un investimento iniziale superiore ai mille euro.
AG: Sarà necessario familiarizzare con il Sistema Sanitario Irlandese, inclusi i protocolli e le procedure specifiche utilizzate nel trattamento dei pazienti, in particolare nel settore della diagnostica e della medicina di laboratorio. Vede qualche differenza significativa in merito?
AD: I protocolli della diagnostica microbiologica sono abbastanza standard dovunque, in Europa molte delle linee guida vengono stabilite da organismi collegati a ESCMID; ad esempio l’interpretazione dell’antibiogramma è competenza di un comitato chiamato EUCAST che ha sede a Stoccolma e al quale l’Irlanda aderisce da tempo come anche l’Italia. Anche le linee guida per la terapia antibiotica sono simili, e il grosso della differenza la fa la disponibilità in commercio di alcuni farmaci. Quello che può cambiare è la disponibilità in laboratorio di metodiche approfondite, ad esempio in Irlanda si usa in prima battuta la biologia molecolare per questioni che in Italia vengono affrontate con metodiche più tradizionali.
AG: Nel corso del mese di maggio si terrà a Roma il XXV Congresso Mondiale di Clinical Chemistry & Laboratory Medicine, in parallelo al congresso europeo e a quello italiano di SIBioC. Al di là delle opportunità che il settore pubblico offre ai medici, come vede il privato come sbocco professionale per un medico? Aziende di diagnostica quali ThermoFischer, Werfen, Stago nonché divisioni di diagnostica di aziende farmaceutiche quali Roche, Menarini e Abbott, nonché DiaSorin che operano da molti anni in Italia non possono offrire condizioni lavorative contrattualmente e professionalmente stimolanti a uno specialista del suo settore?
AD: Questo tipo di aziende ben di rado assume medici, e in genere in Italia non sono ottimali né le condizioni di lavoro né la qualità del lavoro stesso, che consiste sostanzialmente in produrre certificazioni. Alcune aziende estere, come ad esempio Bruker Daltonics, impiegano medici nel settore R&D presso le loro sedi estere. Il grosso del settore è comunque costituito da biologi e biotecnologi, sicuramente molto più abbondanti nel mercato del lavoro, ma anche più avvezzi e più qualificati per il tipo di attività di queste aziende. Per la mia esperienza, posso dire di aver conosciuto un solo medico microbiologo impiegato in questo tipo di attività, e lavora proprio presso Bruker, nella loro sede centrale a Brema.
AG: Quali sono state le maggiori frustrazioni o sfide che ha affrontato all’interno del Sistema Sanitario Italiano durante la sua esperienza di lavoro in Microbiologia clinica?
AD: Sicuramente il costante confronto e conflitto con le amministrazioni ospedaliere. Gestire un laboratorio è una faccenda molto costosa, fra strumentazione e costo del personale, e quando si parla di soldi si fa sempre tutto molto difficile. Inoltre, quasi sempre le persone coinvolte nell’amministrazione ospedaliera sono lontane dalle problematiche del laboratorio, quindi anche comunicarne le necessità diventa molto complicato. In alcuni posti (fortunatamente non a Bologna) anche il confronto con gli infettivologi per noi era difficile, perché le nostre opinioni venivano vissute come una “intrusione” nel loro campo: ne soffriva ovviamente la qualità e la gratificazione del nostro lavoro.
AG: Ha avuto l’opportunità di partecipare a programmi di scambio internazionale o collaborazioni con colleghi stranieri durante la sua formazione in Italia? In che modo queste esperienze hanno influenzato la sua decisione di trasferirsi all’estero?
AD: Purtroppo, come detto prima, le opportunità di scambio con l’estero sono molto poche. Ho avuto modo di lavorare con un collega giordano in fellowship a Bologna, che ricordo con molto affetto. Ho avuto anche altri contatti con colleghi argentini ed etiopi, ma tutti di brevissima durata.
AG: Quali sono le competenze, le conoscenze o le prospettive professionali che si aspetta di sviluppare ulteriormente nel contesto lavorativo in Irlanda, rispetto a quanto fatto finora in Italia?
AD: Sicuramente spero di affrontare in maniera più completa ed approfondita il tema della stewardship microbiologica, che in Italia è ancora in fase embrionale mentre in Irlanda segue la scuola del Regno Unito ed è quindi molto più avanti.
AG: Qual è la sua opinione sul ruolo che la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici, Chirurghi e Odontoiatri dovrebbe avere nel sostenere i giovani medici in Italia e affrontare le sfide legate al carico di lavoro eccessivo, allo stipendio basso e al precariato? Quali iniziative o riforme ritiene che gli Ordini dovrebbero promuovere per migliorare le condizioni di lavoro dei medici in Italia e favorire la crescita professionale, tenendo conto delle difficoltà che i giovani medici incontrano attualmente?
AD: Penso che la sfida dovrebbe partire dal garantire migliori condizioni ai colleghi specializzandi, che in diverse scuole lavorano un quantitativo di ore massacrante per 1700 euro al mese senza tredicesima, a cui vanno sottratti tasse universitarie, ENPAM e quota di iscrizione all’Ordine che si portano via facilmente due mensilità. Il tutto per una formazione che non sempre è davvero di qualità, e temo che il recente incremento sproporzionato dei posti in specializzazione abbia, in certi casi, peggiorato la situazione.
In secondo luogo andrebbe ripensato l’attuale sistema di concorsi e bandi di mobilità. Al momento siamo costretti ad andare a caccia di concorsi e graduatorie sulla Gazzetta Ufficiale, faccenda non sempre facile; i bandi di mobilità poi vanno cercati presso le singole aziende e spesso sono molto ben nascosti in quanto prodotti “ad hoc” per qualcuno.
Infine va riconosciuto che in certi posti i colleghi, semplicemente, non vogliono lavorare: penso soprattutto a centri piccoli e isolati dove, a parità di stipendio, si fa un lavoro più stressante, più ripetitivo, con meno mezzi e spesso in condizioni di carenza di organico, magari in qualche paesino sperduto con pochi servizi; perché un medico dovrebbe scegliere di lavorare in un ospedale periferico perso nell’Appennino quando potrebbe lavorare in una grande città? In guardia medica, in questi casi, esiste un incentivo economico per quelle che vengono classificate come “sedi disagiate”; non so quanto possa essere utile applicato alla situazione ospedaliera, ma può essere uno spunto di riflessione.
Vorrei però sottolineare come molte problematiche dei medici di corsia io le conosca solo “di seconda mano”; in Microbiologia il carico di lavoro, fortunatamente, è più che affrontabile, e anche durante il COVID il nostro superlavoro è stato poco confrontato ai colleghi intensivologi e infettivologi. Per noi è molto più sentito il problema della disponibilità e qualità del lavoro.
AG: Che ruolo potrebbero le società di settore, in particolare nell’offrire un supporto a un giovane specialista?
AD: Penso all’AMCLI (Associazione Microbiologi Clinici Italiani) piuttosto che alla SIM (Società Italiana di Microbiologia) che è molto più “generalista”. Come associazione di categoria, AMCLI già offre molte opportunità agli specializzandi: il congresso annuale è completamente spesato, pernottamento compreso, e molti corsi di aggiornamento vengono offerti gratuitamente o a costi ridotti.
Anche per gli specialisti offre molte opportunità di networking, e con esse arriva a volte il modo di trovare contratti temporanei, come già ho descritto sopra. Inoltre, tramite ESCMID, che è l’associazione europea di riferimento, AMCLI già offre delle observership all’estero, di durata variabile fra due settimane e alcuni mesi; penso che sarebbe un bello spunto trasformare queste ultime in opportunità di formazione durante la specializzazione.
Purtroppo non conosco la realtà di altre associazioni di categoria, anche se dalle voci che mi arrivano penso che AMCLI sia già fra le più attive nel supporto ai suoi iscritti.
AG: Lei è di Bologna. Cosa le mancherà di più? Le lasagne, i tortellini o San Luca?
AD: Di queste tre, sicuramente la vista di San Luca quando rientro a Bologna, per quanto ormai anche la Torre Unipol sia entrata prepotentemente nel nostro immaginario collettivo. Ma più in generale mi mancheranno amici e famiglia, come a tanti colleghi costretti a partire, sia per l’estero che per altri lidi in Italia. Ma d’altronde, quando si va ad affrontare l’ignoto, spesso siamo costretti a farlo da soli, ed io mi ritengo già fortunato a poter avere mia moglie al mio fianco.
AG: Ringraziamo di cuore il dottor Deni per questa intervista e gli auguriamo il meglio per la sua imminente esperienza lavorativa all’estero, con l’auspicio che possa rientrare tra qualche anno in Italia in un contesto altrettanto stimolante e gratificante.