È una sfida. Una di quelle maggiori. Che non siamo destinati a vincere in un giorno. E non è solamente una generica sfida di solidarietà. Implica molto di più: la consapevolezza della necessità di accettarla questa sfida, della nostra modalità di essere nella società, cioè il rendersi conto del nostro modo di rapportarci agli altri. L’andare oltre, molto oltre quello che semplicemente serve a noi o che desideriamo. Il metterci nei panni dell’altro, sentirne l’essere, il suo stato d’animo, la frustrazione e l’infelicità per la mancanza di qualcosa cui la sua dignità gli da diritto ma che la realtà gli nega, creando in tal modo quella disparità che è alla base della rabbia e dell’invidia sociale, premesse a loro volta della mancanza di pace, sociale e individuale.
È la sfida del bene comune, concetto che sta acquisendo attualmente una connotazione innovativa assai marcata, nonostante l’abuso che spesso si è fatto dei due termini. L’innovatività risiedendo proprio nella forte necessità di ricrearlo, laddove l’averlo perso di vista o decisamente osteggiato col privilegiare il vantaggio personale (spiace doverlo constatare, soprattutto al livello politico e pubblico), ha contribuito in maniera sostanziale a creare le condizioni per l’avvento della crisi sociale che attraversiamo, cui va aggiunto il danno economico connesso col mancato valore e conseguente benessere diffuso che il bene comune crea.
Ma innanzitutto occorre definire il bene comune. Di cosa stiamo parlando? Per cominciare potremmo tentare di identificare ciò che pur facendone parte non rappresenta, da solo, il vero bene comune. Mi riferisco ad elementi come un patrimonio comune, qualcosa posseduta da più persone (ad esempio un campo o un bosco il cui proprietario è un gruppo, una comunità); un insieme di beni sociali (p.e. una tradizione tecnologica o politica di una società), o l’insieme dei diritti dell’uomo. Questi sono solo frammenti del bene comune.
Il vero bene comune sembra piuttosto potersi identificare in tutte quelle condizioni di vita nella società che promuovono il progresso culturale, spirituale, morale, economico di tutti, nessuno escluso.
Tra le altre, due condizioni appaiono indispensabili perché ci siano benessere e progresso: la salute e la garanzia che tutti i membri di una società possano avervi accesso.
Proprio assicurare questo accesso a tutti rappresenta una delle sfide principali che la società e la politica in particolare sono chiamate ad affrontare.
La grande crisi che il nostro modello di sistema socio-economico sta attraversando rappresenta la minaccia più immediata all’accesso alla salute per tutti. In primo luogo, per la lievitazione dei costi della sanità, determinata dal progresso stesso della scienza e delle tecnologie disponibili e che mostra un andamento inarrestabile. Ma altrettanta importanza ha la gestione tutt’altro che ottimale della sanità, almeno nel nostro Paese.
Tra le pieghe della spesa sanitaria si nasconde un’intera finanziaria, fatta di cifre che potremmo risparmiare: di fatto, controllando meglio l’esborso annuale per la salute (111,4 miliardi di euro nel 2014), si potrebbe evitare di gettarne via quasi 25 (fonte Fondazione Gimbe).
Non è di oggi la scoperta che nella gestione del bilancio del SSN ci siano ampi spazi di miglioramento, ma che la cifra potesse rappresentare circa il 23% di tutta la spesa è certamente un dato che mette i brividi, più che far pensare. E non si tratta solo di sovrautilizzi (7,7 miliardi di euro p.e. esami non necessari), frodi o abusi (5,1 miliardi di euro) o acquisti a costi eccessivi (4,1 miliardi di euro); ben 3,1 miliardi di euro se ne vanno perché le risorse a disposizione non vengono utilizzate a sufficienza o in modo corretto, causando in tal modo un aggravamento dei pazienti, il che a sua volta genera ulteriori costi, e altri 2,5 miliardi si perdono nei rivoli del cattivo coordinamento tra ospedali e territorio o all’interno dei nosocomi stessi.
E i dati forniti dall’OCSE non migliorano certo il quadro: per esempio tra i paesi che ne fanno parte, siamo tra gli ultimi per l’assistenza agli anziani (particolarmente quella a lungo termine) e nella prevenzione, abbiamo una bassa aspettativa di vita in buona salute e senza disabilità dopo i 65 anni (8 anni per gli uomini e 7 per le donne), mentre i nostri bambini sono tra i più obesi o in sovrappeso del mondo.
In buona sostanza, in Italia la gestione della salute, dalla prevenzione alla malattia, non appare esattamente centrata sulle esigenze dei pazienti e dei cittadini.
Come dicevo, gli spazi per il miglioramento ci sono e sono più che ampi, ma non solo in senso quantitativo (riduzione della spesa e miglioramento della sua resa). In altre parole, non è solo una questione di soldi. Esiste, ed è urgente, la necessità di focalizzare l’attenzione sul paziente, sull’essere umano, in maniera globale, evitando di concentrarsi solo sugli aspetti economici, pure rilevanti. E occorre recuperare tutte le risorse umane disponibili per raggiungere quest’obiettivo.
Dobbiamo prendere atto della parte sociale della crisi, laddove essa si concretizza nel senso di insicurezza e nello scoraggiamento delle persone che può sfociare nello scadimento quali/quantitativo dell’impegno personale.
E dal momento che il “sociale” non è altro che la risultante del comportamento dei singoli, è sul singolo che vanno concentrati l’attenzione e gli sforzi per tentare di invertire questa tendenza allo scoraggiamento e al disimpegno.
Un individuo può astenersi dall’impegno sociale per le più varie ragioni e non è sempre possibile vincerne le resistenze. È fuor di dubbio che il diffuso clima di sfiducia nelle istituzioni e la sensazione che gli sforzi del singolo siano in ogni caso destinati a non influenzare significativamente l’ambiente in cui si vive possano portare ad un disimpegno progressivo. Ma d’altra parte è un fatto che la tendenza delle società occidentali a dilatare sempre di più lo spazio a disposizione dell’immagine di sé che l’individuo persegue, lo allontani progressivamente dal contesto sociale (ironicamente a dispetto della disponibilità dei cosiddetti “social” media), determinandone un isolamento sempre più netto e difficilmente emendabile. È necessario rimotivare il singolo, reinserendolo nel circuito virtuoso impegno-riunione al sociale-gratificazione. In questo grande responsabilità ha la politica, sia per l’esempio che può e deve dare in termini di comportamenti virtuosi, sia per l’indicazione di obiettivi formativi e di indirizzi correttivi ai comportamenti sociali devianti. Ma nonostante tutto è ancora il singolo che deve ritrovare in se stesso la motivazione all’agire socialmente utile. È ovvio che l’impegno debba coinvolgere anche tutti gli altri attori del sistema salute: settore pubblico a tutti i livelli, industria e quant’altri. Tuttavia mai come in questo momento è importante il recupero dell’impegno personale giornaliero di ciascuno, impegno che inizia dalle piccole cose, ristabilendo quell’interscambio personale-sociale che rappresenta l’elemento base nella costruzione di una sussidiarietà affidabile e concretamente produttiva, oltre ad offrire un potenziale di sviluppo personale difficilmente eguagliabile da altre opportunità.
Fortunatamente, nonostante la crisi, ancora un buon numero di persone si dedica al volontariato ed all’auto-organizzazione a fini sociali, allo scopo di creare le migliori condizioni perché il fare collettivo diventi concretamente sinergico. Nel nostro paese nel 2013 erano presenti più di 300.000 organizzazioni non profit operanti in vari settori, con 4,7 milioni di volontari (dati ISTAT) e circa trentamila associazioni di pazienti. Una massa imponente, dotata di notevole impatto, che tuttavia potrebbe produrre risultati notevolmente più significativi se meglio organizzata e soprattutto coordinata.
Le ONLUS hanno ormai assunto un ruolo strutturale nell’organizzazione e nella gestione della sanità: un SSN senza il loro apporto è inimmaginabile dato che comporterebbe una sostanziale compromissione della sua funzionalità e delle sue prestazioni.
Proprio con l’intento di rimettere il Bene Comune al centro dei valori cui ispirare l’azione individuale e collettiva di tutti i giorni, non solo nel settore della salute, valorizzando al massimo l’innovazione e l’aggregazione tra persone che condividano l’idea che perseguirlo possa creare ricchezza, benessere diffuso, e vantaggi per tutti, nasce FareRete-Innovazione il Bene Comune-il benessere e la salute in un mondo aperto a tutti. L’obiettivo della ONLUS costituitasi il 14 ottobre u.s. in particolare si contrappone alle disuguaglianze create dalla globalizzazione ed alla sempre più difficile sostenibilità economica del welfare. Il Bene Comune quindi, anche come fonte di innovazione inclusiva e non esclusiva, per creare valore sociale e civile nel tempo in cui viviamo.
L’associazione, ideata e promossa da Rosapia Farese, intende contribuire alla creazione e diffusione di una cultura manageriale tra tutti gli attori del sistema salute, a favore della sostenibilità economica del sistema Sanitario e di tutte le problematiche attinenti alla conservazione della salute ed alla gestione della malattia. Ma nella visione strategica di FareRete (il cui nome indica anche l’intento di creare una responsabilità realmente diffusa) rientrano pure le questioni riguardanti l’inclusione/integrazione sociale, al pari di tutti quei fattori che influiscono sulla qualità della vita umana in termini sistemici.
L’idea di FareRete-Innovazione il Bene Comune si ispira al pensiero di Michele Corsaro (1941-2009), fondatore di Medi-Pragma, secondo il quale “il Bene Comune non è da intendersi come la somma dei beni individuali acquisiti attraverso opportunità individuali sviluppate in funzione del primato dell’Ego”. Egli ha sempre sostenuto che i principi fondamentali alla base del bene comune fossero tre: primato della persona, sussidiarietà e partecipazione.
Appunto da questa intuizione si sviluppa l’idea di fondo di FareRete e cioè che l’innovazione nelle attività economiche ed imprenditoriali rappresenti un bene comune, cioè un modello etico e di sviluppo altamente significativo nel contesto sociale odierno, particolarmente nel settore della Salute.
Un programma impegnativo e che presuppone una grande azione di trasformazione culturale per la promozione di un approccio realmente etico al Bene Comune”.