Come cambia la relazione di cura, riabilitativa ma non solo, nell’epoca del COVID-19: cosa ci lascia l’esperienza vissuta in un reparto di riabilitazione neuromotoria durante il lockdown e nei mesi a seguire
Antonio Robecchi Majnardi1, Elisabetta Banco2
1Medico specialista in Medicina Fisica e Riabilitativa – Aiuto Primario – U.O. Riabilitazione Neuromotoria – Ist. Auxologico Italiano – Ospedale San Luca, Polo Chirurgico e Riabilitativo “Capitanio” – Milano
2Psicologa – Psicoterapeuta – Logopedista – U.O. Riabilitazione Neuromotoria – Ist. Auxologico Italiano – Ospedale San Luca, Polo Chirurgico e Riabilitativo “Capitanio” – Milano
Il contesto
Tra gli strumenti di contrasto della pandemia COVID-19 un ruolo sostanziale è stato svolto dalle misure preventive di igiene che hanno imposto, primo tra tutti, il distanziamento sociale nella comunità nel suo insieme. Con diverse e varie declinazioni questo provvedimento è stato a maggior ragione necessario negli ambiti sanitari nei quali un passaggio cruciale è stato limitare e monitorare sia l’accesso incontrollato alle strutture sanitarie da parte di chi non ne avesse stretta necessità, sia la circolazione di utenti e personale all’interno delle strutture medesime.
Se guardiamo al mondo sanitario è evidente la differenza strutturale tra la parte che si occupa di acuzie, dai presidi di Pronto Soccorso (PS) alle degenze mediche e chirurgiche, e quella che si occupa della post-acuzie e cronicità (nell’accezione cronologica del termine): la prima prevede la permanenza del paziente per tempi mediamente limitati all’arco di pochi giorni, mentre nella seconda il percorso dei pazienti è ben più lungo, spesso della durata di mesi.
La recente pandemia ha costretto il mondo sanitario e sociale a focalizzarsi sulla prima tipologia: da questa consapevolezza muove i suoi passi la presente riflessione, maturata in un reparto di riabilitazione intensiva (cod. 56) a indirizzo neurologico, con alcune peculiarità che ne derivano, ma con un’esperienza relazionale facilmente generalizzabile a favore di altri contesti.
Per le strutture sanitarie riabilitative di tutti i livelli (così come per quelle sociosanitarie, prime tra tutte le Residenze Sanitarie Assistenziali – RSA) la strategia di difesa ha previsto – tra le altre misure – la limitazione di accesso di familiari e caregivers e l’utilizzo di Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) che, se da un lato hanno cambiato radicalmente le abitudini operative, dall’altro determinano ricadute relazionali e cognitive che sono, ad oggi, ancora poco riconosciute e comprese.
I modelli di cura

Gli attori del modello di cura orientato al paziente: tutti hanno subito modificazioni durante questi mesi, cambiando profondamente il percorso di cura.
Se infatti guardiamo al recente storico, il modello di intervento riabilitativo centrato sul paziente è stato il lento approdo perseguito dopo profonde modificazioni dei percorsi formativi dei professionisti della cura della persona. La recente “chiusura” dei reparti durante e dopo la pandemia ha messo profondamente in crisi questo modello.
Sappiamo, per l’esperienza acquisita, che il percorso del paziente si costruisce dall’ingresso alla dimissione attraverso relazioni. In un contesto riabilitativo le relazioni solitamente si creano tra il medico ricevente e la struttura inviante, quindi con il paziente e il caregiver, i quali contestualmente si relazionano a loro volta con il personale infermieristico e assistenziale e in rapida successione con il personale riabilitativo, fino ai consulenti e all’assistente sociale. Ciascuno di questi “attori” ha in mente in modo più o meno ampio il percorso del paziente: un transito di durata limitata (ma non breve) durante il quale il paziente subisce trasformazioni funzionali più o meno apprezzabili in diversi ambiti.
Il paziente post-acuto frequentemente arriva in un reparto di riabilitazione “catapultato” da una realtà acuta dove i principali temi di confronto con i sanitari di riferimento riguardano la gravità dell’evento, raramente con una attenzione all’impatto che i postumi dell’evento stesso avranno nella quotidianità futura. Durante la permanenza in riabilitazione il paziente (nella nostra esperienza quello neurologico) inizia invece a capire quanto il suo mondo sia cambiato e lo realizza con i propri pensieri, confrontandosi con le proprie limitazioni quotidiane, sfidando il personale assistenziale, forzando quello riabilitativo per il desiderio di accelerare un processo di recupero reale o anche solo ipotetico. Tutto ciò solitamente trovava un contenitore e uno specchio negli occhi, nelle parole e nel contatto dei familiari, i quali oggi sono assenti forzati dal percorso.
Certamente l’impatto non è uguale per tutti: tanto più il paziente è cognitivamente integro, tanto maggiore sarà la sua capacità di mantenere vivo e nutriente il legame con la famiglia, che ha un ruolo sostanziale nel percorso riabilitativo. Diverso è il caso dei pazienti in cui la noxa ha determinato alterazioni cognitive che ne riducono la capacità di comprendere la condizione clinica attuale, la possibilità di immaginarne l’impatto nella propria vita e di programmare un percorso futuro.
Come esplicitato dal modello sopra descritto, il “contratto di cura” non si crea solo tra medico e paziente ma anche attraverso il caregiver, in particolare quando il “contratto” stesso può non essere chiaro al paziente per le difficoltà cognitive intrinseche alla condizione di malattia. Dal punto di vista del caregiver la propria assenza ne ha amplificato l’ansia insita nell’incognita della malattia, con un tentativo di compenso e controllo attraverso contatti telefonici, videochiamate o mail (apparsi agli operatori talora esorbitanti quando moltiplicati per il numero di pazienti).
Va poi aggiunto che il paziente si è trovato vacante non solo della sponda affettiva del familiare, ma spesso anche di quella dei compagni di ventura ricoverati, in quanto all’isolamento dalle famiglie è corrisposto l’isolamento sanitario/sociale anche in reparto.
Un’ulteriore difficoltà per il paziente è dovuta poi ai cambiamenti occorsi al personale di reparto. Innanzitutto l’utilizzo dei DPI ha reso ugualmente mascherati tutti gli operatori alle cui cure il paziente si deve affidare, rendendoli oggi più connotati dal timbro di voce che dal colore dei capelli o dalle rughe di un sorriso. In secondo luogo il personale è stato a sua volta condizionato dalle modificazioni dell’ambiente lavorativo, ha riscoperto vecchie paure, spesso indeciso nel dilemma tra “unto” e “untore”, e ha progressivamente realizzato di dover dedicare molto più tempo ed energie, rispetto a quanto non fosse solito fare, per strutturare in maniera esplicita le relazioni interpersonali. Quindi, mentre ledistanze si ampliano fisicamente dal reparto verso l’esterno, si riducono emotivamente al suo interno. I difficili equilibri che ciascun operatore ha stabilito nel corso di una carriera in ambito sanitario sono stati rimodellati da un’emergenza che ha cambiato le regole. La gestione di questo “elastico-calamita” vissuto dagli operatori a tutti i livelli ha comportato una fatica aggiuntiva per mantenere un centro di equilibrio, che ciascuno ha poi trovato in assenza di chiare indicazioni dall’esterno. Per i più fortunati almeno le indicazioni sull’uso dei DPI erano chiare, ma anche in questo caso nessuno ha ricevuto indicazioni su come gestirsi e gestire la nuova relazione. Chi, tra gli operatori, si è prestato a fare le videochiamate con i familiari si è sentito calato in una intimità inusuale. Conoscere le case dei nostri pazienti è già un punto di vista insolito; ancora di più lo è scorgere due o tre generazioni che rimandano occhi commossi e continuano a ripetere l’impossibilità alla presenza fisica, scusandosi quasi come se il paziente temesse l’abbandono. Sono tutte variabili che si aggiungono al percorso: talora rabbia che si tramuta in boomerang contro il medico o il personale di reparto da parte di familiari che vivono l’impotenza della lontananza.
Il percorso
L’ingresso, l’accoglienza, la spiegazione, la conoscenza e la dimissione sono tutti momenti del percorso di cura che il COVID-19 ha modificato. L’ingresso tra “attori mascherati” che hanno come canovaccio una lettera di dimissione e poche altre informazioni. Le telefonate ai parenti nel tentativo di comporre il quadro complesso della storia del paziente, rapidamente riassumerla e tradurla in obiettivi clinici e/o riabilitativi. Poi il percorso di cura, che sappiamo essere troppo spesso lento e arricchito da complessità cliniche, oggi ancora meno prevedibili di un tempo. Poi il bagliore della prognosi e la decisione del “dopo-di-noi”. Percorsi di cura chiusi, opzioni limitate, parenti che devono immaginarsi cosa significhi dover ricorrere a un sollevatore “tipo-quello-delle-barche”. L’espressione “il paziente riesce a fare i trasferimenti” è un passaggio chiaro ai sanitari, ma spesso è del tutto incomprensibile per i familiari che hanno lasciato il parente – magari brillante e autonomo fino a mezzora prima – in un Pronto Soccorso oppure in una Stroke Unit. La montagna che divide le parole del medico rispetto alle immagini mentali prodotte nei familiari solitamente è mediata dalla esemplificazione pratica che per mesi non è stata (e non sarà verosimilmente per un po’) possibile. Il “paziente nascosto” è la definizione di caregiver che maggiormente rispecchia quanto sia fondamentale nel percorso di cura coinvolgerlo in tutti i passaggi: dall’accoglienza alla dimissione.
Il cambiamento tecnico-professionale
Fino a qui nulla sembra essere cambiato nelle componenti tecnico-professionali, ma non è così. Sappiamo invece che ogni operatore ha dovuto adattarsi e calibrare gli atti professionali alle nuove misure di prevenzione. Un esempio per tutti ci viene dalle nuove linee guida per la valutazione della disfagia.
La valutazione che, sino a poco tempo prima, veniva fatta di fronte al paziente, valutandone a livello intra-orale i riflessi neurologici, i movimenti attivi e la sensibilità, anche chiedendone la tosse volontaria, è stata volutamente ridotta per ridurre i rischi di dispersione ambientale e di contagio dell’operatore. Perché una valutazione più essenziale non andasse a scapito della sicurezza del paziente, la scelta di vie/strategie/compensi di alimentazione è stata inevitabilmente più cauta ma, di conseguenza, penalizzante rispetto ai tempi di svezzamento o di ampliamento della dieta.
Solo l’esperienza degli specifici reparti sa quanti altri strumenti di uso comune (dai devices di utilizzo infermieristico fino ai test usati nelle terapie occupazionali e nelle neuropsicologie) non sono stati utilizzabili o condivisibili come in precedenza tra i pazienti.
Oggi certo è diverso rispetto a sei mesi fa: alcuni parenti hanno ripreso una parte dello spazio vacante al lato del paziente, anche se in modo parziale; le possibilità di dimissione sono nuovamente ampliate; le metodiche valutative vanno regolarizzandosi. Non possiamo dire che tutto sia tornato come un anno fa ma la consapevolezza del concetto di distanza, dentro e fuori il reparto è sicuramente più presente. Non è utile l’abusato criterio meglio o peggio di prima, ma sicuramente oggi molto è diverso, avviene a distanza, “da remoto”, e forse proprio il concetto di distanza è quello saliente nel periodo COVID-19, comportando ricadute sfaccettate e non ancora tutte chiare a noi stessi operatori.
Quanto trasformare questo nuovo punto di vista in opportunità forse non dovrebbe essere affidato al singolo operatore, che di individualismo ne ha già vissuto abbastanza durante l’emergenza, ma potrebbe diventare uno spunto sistematico per riorientare il percorso del paziente in particolare in tutti quei setting che prevedano una degenza protratta nel tempo.
Bibliografia e sitografia
- https://www.iss.it/coronavirus
- Miles, A., Connor, N. P., Desai, R. V., Jadcherla, S., Allen, J., Brodsky, M., … & Murray, J. (2020). Dysphagia care across the continuum: a Multidisciplinary Dysphagia Research Society Taskforce report of service-delivery during the COVID-19 global pandemic. Dysphagia, 1-13.
- Oates, J., Weston, W. W., & Jordan, J. (2000). The impact of patient-centered care on outcomes. Fam Pract, 49(9), 796-804.
- Rodney, P. A. (2015). The Design and Implementation of a Relationship-Based Care Delivery Model on a Medical-Surgical Unit.
- Thucydide, La guerre du Péloponnése, Les belles lettres, Paris 1975 (a cura di J. de Romilly).