L’India (e non solo) alle prese con il “fungo nero” quale grave complicanza dei pazienti con infezione da nuovo coronavirus
Alberto Enrico Maraolo1, Giovanni Broscritto2
1 Dirigente Medico, Specialista in Malattia Infettive – U.O.C Malattie infettive emergenti e ad alta contagiosità, Azienda Ospedaliera dei Colli – Ospedale Cotugno di Napoli
2 Collaboratore Professionale Sanitario, Infermiere – UOSD Pronto soccorso infettivologico ed accettazione, Azienda Ospedaliera dei Colli – Ospedale Cotugno di Napoli
Da alcune settimane l’India è diventata il fronte più caldo dal punto di vista epidemiologico nella lotta al SARS-CoV-2. Il paese sembrava essere stato relativamente risparmiato dalle prime due ondate. A metà febbraio 2021 si erano superati i 10 milioni di contagi ufficiali, con un picco nel mese di settembre (oltre un milione di casi attivi). I numeri assoluti erano rilevanti, ma da relativizzare a una popolazione enorme, di circa 1 miliardo e 350 milioni di persone. Si ipotizzava che l’età media abbastanza bassa avesse favorito una larga diffusione del virus, prevalentemente in forma asintomatica/paucisintomatica nonché sfuggita a un testing insufficiente, raggiungendo una sorta di immunità di gregge in molte regioni del subcontinente.
Lo scenario è successivamente cambiato. Al 22 maggio i nuovi casi registrati giornalieri erano 240.842 (l’attuale record è stato raggiunto il 6 maggio con 414.188 casi), e in poco più di quattro mesi il numero totale di contagiati è più che raddoppiato, superando quota 26 milioni dall’inizio della pandemia, con quasi 300 mila decessi. I media di tutto il mondo hanno documentato e stanno tuttora testimoniando la crisi galoppante del sistema sanitario indiano, travolto dall’impennata di casi. Ancora non è chiara quale sia stata la causa di questo fenomeno: verosimilmente un insieme di fattori quali la crescita della cosiddetta variante indiana, la debolezza del sistema di screening, il concatenarsi di una serie di eventi (elezioni, festività religiose) che hanno favorito assembramenti di milioni di persone.
Ad aggravare il tutto in India, all’epidemia dilagante di nuovo coronavirus si è sovrapposta l’esplosione di casi di “black fungus”, o più scientificamente di mucormicosi, rara ma letale infezione fungina invasiva, già nota quale potenziale complicanza della COVID-19.
Di seguito la sintesi di un case report paradigmatico, descritto da autori statunitensi dell’Università della California (San Francisco), accettato per la pubblicazione già a metà ottobre 2020.
Un uomo di 60 anni con una storia di diabete insulino-dipendente scarsamente controllato, asma, ipertensione, iperlipidemia e un recente viaggio in Messico, si è presentato in Pronto Soccorso per dispnea. Risultato negativo allo screening per SARS-CoV-2, è stato dimesso con una diagnosi di bronchite e trattato con antibiotici e ossigeno domiciliare.
Una settimana dopo, ha manifestato un peggioramento dei sintomi. Sebbene il glucosio sierico fosse leggermente elevato (105–143 mg / dl), la sera prima aveva una marcata iperglicemia (600 mg/dl). Dopo essere risultato positivo al tampone molecolare per SARS-CoV2, è stato trasferito all’Università della California, a San Francisco, per ricevere un livello più elevato di assistenza per COVID-19 ed ARDS associato. Al suo arrivo, è stato intubato nel reparto di terapia intensiva e sottoposto a remdesivir.
Il giorno seguente, è stato riscontrato che il paziente aveva prominenza dell’occhio destro. L’imaging evidenziava proptosi del globo oculare destro con ampia opacizzazione dei seni mascellari, etmoidi e frontali destro. Si repertava altresì una parziale opacizzazione del seno sfenoidale destro con erosioni della lamina papiracea. I risultati clinici e radiografici erano altamente sospetti per rinosinusite fungina invasiva acuta con coinvolgimento orbitale. Il valore dell’emoglobina glicata è risultato essere molto alto, pari al 14,0%.
La coltura del tessuto intranasale e la biopsia sono state eseguite tramite endoscopia nasaledurante la seconda giornata di degenza del paziente. Il paziente è stato avviato con vancomicina e cefepime per via endovenosa, copertura antifungina con amfotericina B liposomiale e controllo rigoroso della glicemia.
Nella quarta giornata di degenza, l’istopatologia ha confermato la diagnosi di mucormicosi angioinvasiva (Rhizopus species): pertanto, l’echinocandina caspofungina veniva aggiunta alla terapia medica. A causa dello stato respiratorio severamente compromesso, richiedendo un posizionamento prono per più di 16 ore al giorno con lo scopo di ottenere una discreta ossigenazione (FiO2 al 100%), precludendo la valutazione tramite RM nonché la gestione chirurgica.
Il paziente è stato trattato con una serie di 3 iniezioni retro-bulbari giornaliere di amfotericina B liposomiale nell’orbita destra. In concomitanza, il paziente è stato anche iniziato con un ciclo di 10 giorni di desametasone 6 mg al giorno e una singola dose di plasma convalescente come trattamento per COVID-19. Sfortunatamente, il desametasone ha portato a un’iperglicemia difficile da gestire, nonostante l’uso aggressivo di insulina. Il giorno 10, il paziente presentava uno stato respiratorio in miglioramento, consentendo il debridement chirurgico per via endoscopica in ambito otorinolaringoiatrico. Successivamente, è passato dall’amfotericina B liposomiale a posaconazolo a causa di un danno renale acuto. Il suo stato di salute è peggiorato, nonostante il trattamento in corso. Purtroppo, è deceduto il 31 ° giorno dall’ospedalizzazione.
Il case report permette di enucleare alcuni aspetti fondamentali della mucormicosi. La patologia è riconosciuta come agente eziologico vari tipi di muffe, nell’ambito del regno dei funghi, appartenenti all’ordine Mucorales. In particolare Rhizopus e Mucor species sono chiamati più spesso in causa quali “colpevoli” della malattia nell’uomo: si tratta di muffe ubiquitarie nell’ambiente, le cui spore possono essere inalate o possono penetrare nella cute specialmente in caso di soluzioni di continuo. Le muffe hanno colore marrone-nerastro nei terreni di coltura in laboratorio: da qui il nome di “black fungus”.
Il recettore dell’ospite a cui le muffe si legano è la proteina GRP78, la cui espressione sulla superficie cellulare aumenta quale risposta allo stress dopo esposizione a fattori quali ferro e glucosio. In effetti il tipico paziente ad alto rischio di mucormicosi è il diabetico grave scompensato, laddove si configuri un quadro di severa iperglicemia con chetoacidosi: questi due fattori non solo interferiscono con la risposta immunitaria, ma favoriscono anche la crescita fungina, dato che in ambiente acido (pH inferiore a 7,4) aumenta la quota di ferro libero, non più sequestrato dalla transferrina, che va a sostenere lo sviluppo delle muffe.
I media indiani parlano di “unholy trinity”, ovvero empia trinità di COVID-19, diabete e terapia steroidea. La COVID-19 come noto individua gli steroidi quale uno dei pochi presidi terapeutici riconosciuti quando si instaura una polmonite richiedente somministrazione supplementare di ossigeno. Gli steroidi con la loro azione immunodeprimente possono interferire con la risposta immunitaria antifungina e possono favorire condizioni di iperglicemia grave, a maggior ragione in soggetti diabetici o comunque predisposti. La stessa COVID-19 rappresenta un insulto che può precipitare uno scompenso diabetico.
La domanda è: come mai proprio in India si sta osservando questo picco di casi di mucormicosi? Il grande paese asiatico in realtà è già quello con il più alto burden stimato della malattia: una prevalenza di circa 14 casi su 100.000 persone, 70 volte superiore rispetto a quella globale. Ad alimentare questi dati, oltre a verosimili fattori ambientali, vi è il fatto che l’India è il secondo paese al mondo per numero di diabetici, quasi 80 milioni.
La mucormicosi è una patologia ad alta letalità, come testimoniato dal caso su esposto. Nonostante il miglioramento dell’approccio terapeutico nel corso degli anni, spesso combinato medico-chirurgico, la mucormicosi uccide oltre la metà dei pazienti colpiti: il 57% circa secondo una recente meta-analisi, che documentava una letalità superiore al 70% negli studi antecedenti il 2000.
Le forme predominanti di malattia sono quella a interessamento rino-orbito-cerebrale e quella polmonare; meno importanti sono quella cutanea, gastrointestinale; rare sono le localizzazioni ossee o cardiache (endocardite). La prima è tipica dei soggetti diabetici, la seconda dei soggetti ematologici.
Il trattamento richiede un approccio multidisciplinare dopo accurata stadiazione della malattia. I cardini farmacologici della terapia sono rappresentati dall’amfotericina B liposomiale e dai triazoli quali l’isavuconazolo e il posaconazolo. L’evidenza sulla terapia di combinazione è limitato. Spesso è necessario l’intervento del chirurgo per un appropriato debridement dei tessuti colpiti. Fondamentale è dunque una diagnosi precoce, per quanto non esista un algoritmo univoco in tal senso e sia necessaria un’elevata expertise per una diagnosi di certezza mediante tecniche istopatologiche e di microscopia.
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