Il progetto è promosso dall’Associazione FareRete OnLus Innovazione il Bene Comune – il Benessere e La Salute in un mondo aperto a tutti – Michele Corsaro. L’intervista è a cura di Bruno Sfogliarini.
Introduzione
Entro il 2050 più di due terzi della popolazione mondiale vivrà in una città.
Basta questo per comprendere quanto sia importante riflettere sul rapporto tra salute e vita in città, e su come questo rapporto possa rappresentare un’opportunità o un rischio a seconda di come viene gestito.
Vivere in città può significare tante cose, sia positive sia negative.
La grande città può trasformarsi in un nemico: povertà, emarginazione, discriminazione, fenomeni migratori, disuguaglianze socio-economiche, stili di vita sedentari, poca attività fisica, poco tempo da dedicare all’alimentazione e al benessere fisico e psico-fisico, aumento dello stress, traffico, inquinamento, rumore, isolamento sociale. Da qui al tema della salute il passo è breve: aumento del rischio di sovrappeso, obesità, diabete, aumento del rischio cardiovascolare, disagio psichico, maggiore incidenza di malattie croniche e infettive. Tutto questo si traduce per la società in costi economici e sociali e nel rischio di non garantire a tutti i cittadini pari opportunità di assistenza e cura.
D’altra parte esistono anche le luci della città, cioè gli aspetti positivi che creano condizioni migliori di vita e lavoro, e che negli ultimi cinquant’anni hanno portato significativi miglioramenti nella mortalità e morbilità di grandi aree urbane nel mondo.
Parliamo delle città in grado di fornire vita e ambienti di lavoro sani, di offrire buone opportunità di lavoro, servizi, tecnologie.
È dunque evidente come il concetto di “Healthy City” sia sempre più importante e come la realizzazione di una società sana rappresenti il risultato di volontà, pianificazione, progettazione, studio dei fattori di impatto, concentrazione sull’idea di prevenzione in tutte le sue declinazioni: economica, sociale, sanitaria, relazionale e di partecipazione attiva da parte dei cittadini.
Si tratta di progettare e di perseguire una città sostenibile prima di tutto dal punto di vista umano, quindi con attenzione a tutte le sfere di azione e di bisogno dei cittadini che l’abitano.
Sfogliarini: Il tema è quello della salute all’interno delle città, nel concetto di città. Oggi consideriamo il concetto di salute non soltanto come sopravvivenza fisica o assenza di malattia, come dice l’OMS, ma anche come l’insieme di aspetti psicologici e mentali, insomma le condizioni naturali, ambientali, climatiche, abitative e di vita lavorativa, economica, sociale e culturale.
Tu come valuti il livello di salute collettiva oggi in Italia?
Zamagni: Prima di tutto è necessario fare una distinzione fondamentale tra salute e sanità, distinzione che troppo spesso in Italia viene sottovalutata o fraintesa.

Prof. Stefano zamagni
Intendo dire che la sanità è solo una delle cinque componenti/variabili che costituiscono il concetto di salute, e certamente nel concetto di sanità è compreso il sistema sanitario, cioè tutti gli strumenti, le persone e i servizi che il nostro Stato mette a disposizione dei cittadini per curarli nel miglior modo possibile.
Ma oltre che di sanità, salute è fatta di altri fattori.
Prima di tutto gli stili di vita di ogni singolo cittadino: se le persone mangiano troppo junk food, come lo chiamano gli americani, tenderanno di più a diventare obese con tutte le conseguenze che questo comporta. E per quanto la sanità possa essere efficiente, faticherà ad assorbirne l’impatto.
L’ambiente è un altro elemento: in città inquinate come Pechino o Shangai non può che aumentare il rischio di malattie cardiocircolatorie e respiratorie, con un forte impatto sulla salute dei cittadini.
Il tipo di lavoro e l’ambiente in cui lo si svolge possono avere ripercussioni fisiche e/o psicologiche di vario tipo sulla salute del singolo, dando origine a stress, malattie professionali eccetera. Per non parlare dell’assenza di lavoro e delle conseguenze che ha sulla qualità e sull’aspettativa di vita, perché quando non si lavora si vive peggio e si innescano una serie di meccanismi che diminuiscono potenzialmente l’aspettativa di vita. Per fare un esempio, una notizia di poco tempo fa: le statistiche dicono che per la prima volta nel Sud Italia c’è stata un’inversione di tendenza, e la curva dell’aspettativa di vita ha cominciato a scendere. Come mai? Al Sud non mancano le strutture sanitarie, gli ospedali, le medicine, ma aumenta invece la disoccupazione e le conseguenze che a medio e lungo termine questo comporta.
Infine dobbiamo considerare la struttura familiare, il sistema educativo e le possibilità economiche che ci vengono offerte da quando nasciamo.
Dunque, per riassumere, possiamo dire prima di tutto che in Italia troppo spesso confondiamo sanità e salute, e tendiamo ad attribuire troppo sbrigativamente alla prima la diminuzione o la compromissione della seconda.
In secondo luogo, anche se il livello medio di salute collettiva in Italia oggi è ancora buono se confrontato con quello di altri Paesi europei, dobbiamo anche dire che ci sono segnali preoccupanti che ne indicano una diminuzione.
Sfogliarini: Sono d’accordo. Il processo di urbanizzazione, che naturalmente è crescente, nei paesi in via di sviluppo ma anche da noi, mette la città al centro, cioè comunque rende la città un polo per l’azione delle politiche sanitarie, tant’è che l’organizzazione mondiale della sanità ha coniato il termine “Healthy City”, che non indica una città che ha raggiunto un particolare livello di salute pubblica o collettiva, ma piuttosto una città conscia dell’importanza della salute come bene collettivo e che come tale focalizza il tema della salute.
Tu come valuti lo stato delle città italiane in termini di bene collettivo o comune?
Zamagni: L’Italia da questo punto di vista rappresenta, rispetto ai principali Paesi europei, un caso particolare.
Il nostro Paese infatti, per storia, cultura ma anche per le sue caratteristiche fisiche e geografiche, vede ancora la maggior parte della sua popolazione vivere nei paesi e nelle piccole cittadine. Le nostre città più grandi e popolate sono Milano e Roma, la prima conta due milioni di abitanti circa, la seconda arriva a tre. Pensiamo che Londra è arrivata a quindici milioni, Parigi giù di li e cosi via.
Se ci pensiamo, questo è singolare perché possiamo dire di essere stati noi italiani a “inventare” il concetto di città come lo si intende oggi, come modello di organizzazione sociale, non solo come agglomerato di case e strade, ma come luogo pubblico e di vita comune, dove condividere spazi, esperienze, servizi.
Il nostro modello di città, inoltre, è peculiare perché nasce e si sviluppa attorno al concetto di piazza, dove si raccolgono tipicamente tutti i simboli più significativi del vivere sociale: la Cattedrale, il Municipio, la loggia dei mercanti, ma anche il caffè e a volte il teatro.
Sarà banale, ma in inglese centro città si dice “downtown”, cioè letteralmente la parte finale della città, il che ci dice come sia diverso il concetto di un centro “vissuto” da un centro invece dedicato soprattutto al business e al lavoro.
Abitare in città incide per forza di cose sul tipo e il livello di salute collettiva, con aspetti positivi e negativi che vanno tenuti presenti e gestiti.
Dire grande città, grande metropoli, significa anche dire “slums”, vuol dire “banlieu” come quelle parigine, ghetti di varia natura. Più le città sono grandi più questi problemi aumentano: la grande città è una fucina di peggioramento delle condizioni di vita e in generale della salute
Per questo noi italiani rappresentiamo ancora in parte un’eccezione fortunata, perché il nostro modello di civiltà cittadina, e quindi anche lo stato medio di salute, è più elevato che altrove, a parità di condizioni.
Sfogliarini: Ecco, ragionando ancora su questo argomento, ti chiedo una riflessione ulteriore: posto che in Italia non abbiamo vere e proprie megalopoli ma piuttosto una realtà costruita di province, di città medie dove la qualità della vita è, come hai affermato, superiore.
Quali aspetti positivi e negativi vedi nell’organizzazione attuale delle città italiane? Qualche elemento positivo l’hai già citato: quali sono in particolare quelli negativi in termini di organizzazione della città?
Zamagni: L’incapacità di riuscire a mettere in rapporto simbiotico il “Government” con la “Governance”.
Mi spiego: mentre il “Government” rappresenta l’autorità pubblica, la “Governance” rappresenta invece le diverse espressioni della società civile organizzata, dal volontariato, alle fondazioni di comunità, alle cooperative di comunità eccetera.
Queste sono le due principali forme di esercizio dell autorità, ma per una varietà di ragioni, in Italia, a partire dal secondo dopoguerra, non si è riusciti a trovare un modello di organizzazione della città che le facesse agire in armonia.
Questo è il limite più grosso: il giorno in cui tutti, sia gli amministratori pubblici sia la gente lo capiranno, vedremo un punto di svolta.
Il potenziale esiste, perché l’Italia, in rapporto alla popolazione, ha la più alta percentuale di volontari in Europa, una rete di associazioni di promozione sociale che il mondo ci invidia, cooperative sociali di tutti i tipi. Ma troppo spesso ciascuno fa caso a sé stante, senza coordinamento e senza collaborazione con la parte di “Government”.
Quando invece questo accade, come per esempio nel caso di Bologna, e si riescono a stabilire dei rapporti con i “Government” attraverso dei protocolli d’intesa, allora i risultati si vedono.
Ecco allora quale è lo sforzo che occorrerebbe fare, perché diversamente perdiamo quel potenziale, come uno che ha trovato una miniera che contiene qualcosa di grande valore ma non è capace di estrarne il contenuto, quella miniera rimane li e non produce frutto; ecco, noi oggi ci troviamo in questa situazione.
Sfogliarini: L’ultima domanda riguarda ancora questo concetto: in sostanza il territorio, ma soprattutto la città, in questo contesto offrono delle opportunità di integrazione tra servizi di varia natura: sanitari, sociali, culturali e ricreativi. Perciò ti chiedo: la sostenibilità, in particolare dei sistemi sanitari, può passare per questa integrazione, cioè per lo studio dei determinanti della salute, appunto nelle grandi città e quindi per l’integrazione tra questi servizi? In altre parole, vedi oggi delle opportunità concrete di integrazione tra i servizi per le città italiane? È un po’ quello che hai detto prima. Riesci a fare degli esempi?
Zamagni: Anche se so che molti usano questo termine con un altro senso, io non parlerei di integrazione, perché vedo all’interno del suo significato degli elementi negativi. Integrare significa che qualcuno deve entrare nel recinto di altri, rinunciando in parte a sé stesso e alle proprie caratteristiche; racchiude anche un senso di inferiorità attribuito a chi ha bisogno di essere integrato.
Noi invece dobbiamo partire dal rispetto di tutte le identità, quindi io parlerei di cooperazione e di coproduzione, che danno il senso del fare insieme, tutti sullo stesso piano.
È anche a ciò che si ispira il concetto che ho coniato ormai una ventina di anni fa e che va prendendo sempre più piede, quello di sussidiarietà circolare.
Sussidiarietà circolare vuol dire che attorno al tavolo, in senso metaforico, devono sedere i rappresentanti dei diversi mondi vitali che operano nella città, che sono tipicamente gli enti pubblici, il mondo della business community, cioè della comunità degli affari, il mondo delle imprese, il mondo vitale della società civile organizzata. Questi tre vertici del triangolo devono interagire fra di loro, sulla base di precisi protocolli e accordi, per definire le priorità di intervento sulla città, sia in ambito di servizi sociali e sanitari, sia di progettazione o programmazione del territorio, e poi per definire le modalità ottimali di “Governance”. Questo è il segreto del successo della sussidiarietà circolare. In diverse realtà italiane questo sta avvenendo e si vedono i risultati.
In altri casi e anche in passato troppo spesso hanno prevalso la sussidiarietà verticale e orizzontale, che però non bastano.
In questi casi infatti è l’ente pubblico che decide le priorità e le cose da fare e poi, in fase applicativa, stabilisce accordi e convenzioni con diversi soggetti.
Questo però significa mancanza di cooperazione e coproduzione, perché impedisce ai soggetti coinvolti di esprimere il proprio parere e le proprie istanze in fase progettuale, rendendoli meri esecutori.
Oltretutto la mancanza di cooperazione produce problemi. Pensiamo per esempio a quanto in Italia le scuole e le Università siano distaccate dal mondo dell’impresa, del lavoro reale, salvo rare eccezioni.
Non essendoci un modello di sussidiarietà circolare obbligato, quel che succede è che durante tutti gli anni dei corsi universitari lo studente non vede mai una fabbrica, un ufficio, un laboratorio e quando si laurea le imprese ovviamente faticano ad assumerlo. Bisogna allora capire che la triangolazione in questo caso è tra il mondo della scuola e dell’università, il mondo dell’impresa, e il mondo dell’associazionismo, che funge da tramite, da ponte tra gli altri due.
Invece un esempio positivo nel mondo della sanità sono le Case della Salute in Toscana, che hanno dato grandi risultati.
La casa della salute è una via di mezzo tra il medico di base e la struttura ospedaliera. È una struttura intermedia che si trova sul territorio e che viene co-gestita, dico co-gestita, anche dai cittadini che vivono in quella zona, in quel quartiere, unitamente alla ASL.
È cosi che si risolvono i problemi, perché se io vivo in un certo quartiere, io, te, altri, abbiamo una certa età o abbiamo i bambini piccoli, abbiamo o no l’interesse ad avere nel raggio di 300/400 metri da casa nostra una struttura dove si può applicare il pronto intervento, dove puoi fare i prelievi di sangue, dove puoi fare gli interventi di tipo pronto soccorso?
Se questo interesse c’è, i cittadini di quel quartiere si organizzano e cooperano con la struttura sanitaria per la realizzazione del progetto che meglio risponde alle esigenze di quel territorio e di quella comunità, come hanno fatto in Toscana.
Dobbiamo d’altronde considerare che l’Italia viene da una tradizione di marcato statalismo, un’ideologia opposta al neoliberismo, secondo me sbagliate tutte e due.
L’idea dello statalismo è che lo stato pensi a tutto, come diceva Bregovic, dalla culla alla bara, e quindi è chiaro che in questo modo i cittadini sono de-responsabilizzati e per nulla coinvolti. Invece a prendersi cura dei servizi di varia natura sul territorio – scolastici, sociali, sportivi ecc… – dovrebbero essere proprio coloro i quali ne usufruiscono, cioè i cittadini.
Se un quartiere popolato da giovani ha bisogno di un campo sportivo, (gli abitanti) non devono pretendere che lo Stato si accorga di questa esigenza ed aspettare; devono poter interagire con le istituzioni pubbliche per poter ottenere le sovvenzioni che permettano di realizzarlo in breve tempo.
Il protocollo di Bologna firmato esattamente due anni fa va in questa direzione ed è stato il primo in Italia: un protocollo tra amministrazione comunale e società civile organizzata per la gestione dei beni comuni, e i risultati si stanno vedendo. Ormai ci sono già cinquanta altri comuni che hanno adottato il regolamento di Bologna.
Sfogliarini: Da dove parte di solito la spinta per la sussidiarietà circolare?
Zamagni: Da una parte si tratta di diffondere questa cultura con azioni di comunicazione semplici e capillari ai cittadini.
Dall’altra, secondo me, si tratta anche di combattere contro un nemico insidioso che si chiama individualismo libertario e che sempre più si sta diffondendo nella nostra società e soprattutto fra i nostri giovani.
Si tratta di combattere l’idea che ognuno debba fare da solo e pensare a se stesso, che ognuno debba potercela fare da solo.
È chiaro che se io diseduco i giovani in questo modo, non ci sarà mai la spinta ad avviare processi di cooperazione e di coproduzione come abbiamo detto poc’anzi.
L’individualismo libertario oggi è il nemico numero uno, perché getta le persone nella solitudine esistenziale. La controprova? Perché in Italia, negli ultimi vent’anni, il consumo di psicofarmaci è triplicato? Perché il tasso dei suicidi è in continuo aumento? Vorrà dire che quando si è soli è evidente che basta una difficoltà per provocare un disastro, una tragedia.
Bisogna combattere questo atteggiamento, e quei cattivi maestri che dicono, anche in ambiente universitario, che dobbiamo stimolare i giovani ad essere sempre più aggressivi e competitivi; questi sono cattivi maestri, perché sanno che stanno facendo del male.
Sfogliarini: Benissimo, sappiamo che in Italia la solidarietà, la micro solidarietà è molto presente, specialmente al sud.
Zamagni: È vero, ma è in diminuzione, e non è mai stato cosi in Italia, è una tendenza degli ultimi quaranta anni. Chi ha una certa età, diciamo chi ha più di cinquanta anni, è stato educato ad un altro codice. Se disaggreghiamo i dati per età, vediamo che nel gruppo dai cinquanta agli ottanta prevale un certo tipo di atteggiamento, mentre la tendenza tra i ragazzi giovani è di non aiutarsi più fra di loro. Se si guarda alle nuove leve bisogna denunciare questo pericolo veramente grande per la nostra società.
Prof. Stefano Zamagni – economista italiano, ex presidente dell’Agenzia per il terzo settore
Prof. Bruno Giuseppe Sfogliarini – esperto di Marketing, docente Facoltà di Scienze Statistiche dell’Università Statale di Milano Bicocca
Biografia di Stefano Zamagni STEFANO ZAMAGNI (Rimini, 1943) è professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna (Facoltà di Economia) e Adjunct Professor of International Political Economy alla Johns Hopkins University, SAIS Europe.
Si è laureato nel 1966 in Economia e Commercio presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano), e dal 1969 al 1973 si è specializzato all’Università di Oxford (UK) presso il Linacre College.
Prima di Bologna, ha insegnato all’Università di Parma e fino al 2007 ha insegnato all’Università L. Bocconi (Milano) come professore a contratto di Storia dell’analisi economica.
Le sue ATTIVITÀ ACCADEMICO-AMMINISTRATIVE spaziano in una pluralità di direzioni, fra le quali si segnalano – è Presidente del Comitato Scientifico di AICCON (Associazione Italiana per la Cultura Cooperativa e delle Organizzazioni Non Profit). È presidente del Comitato Scientifico della Scuola Superiore di Politiche per la Salute, Università di Bologna. E’ stato presidente (dal 2007 al 2012) dell’Agenzia per il Terzo Settore, Milano. È direttore dell’Osservatorio Nazionale per la Famiglia. (Roma).
Molteplici sono le ONORIFICENZE, I RICONOSCIMENTI E LE APPARTENENZE AD ACCADEMIE,
alle ATTIVITÀ SCIENTIFICO-ORGANIZZATIVE
È autore inoltre di numerose pubblicazioni – libri, volumi editati, saggi – di carattere scientifico, così come di contributi al dibattito culturale e scientifico.
Fra le prime, si segnalano i manuali in uso in moltissime università: Istituzioni di Economia Politica. Libro Bianco sul Terzo Settore, Il Mulino, 2011. Famiglia e lavoro, (con Vera Zamagni), Milano, 2012. Impresa responsabile e mercato civile, Il Mulino, 2013; Mercato, Torino, Rosenberg, 2014.